Mi càpita spesso di discutere con docenti delle scuole. Sono colloqui utili per chi, come me, a inizio anno trova in aula ragazzi del triennio portatori di esperienze – vuoi positive vuoi negative – vissute nel liceo di provenienza. Grazie a questo scambio con gli insegnanti comprendo meglio le problematiche psicologiche dei diciottenni che seguono i miei corsi, le difficoltà del loro inserimento nel contesto universitario. In base agli stimoli che mi forniscono i colleghi delle scuole, do all’insegnamento un taglio più mirato ai ragazzi.
Dalle conversazioni e dalle lettere degli insegnanti emerge un ammirevole desiderio di imparare, affinare le metodologie, ampliare il sapere. Ma anche, sempre più spesso, il senso di crescente fatica e frustrazione che la loro professione comporta.
Trascrivo due lettere recenti: uno dei due colleghi insegna in un liceo, l’altra nella primaria. Sono persone di altissimo valore, colte, aggiornate, amanti del proprio lavoro, che danno il meglio di sé e amano mettersi in discussione.
Ecco la prima.
“… Ti chiediamo scusa per la scarsa presenza negli ultimi tempi, ma siamo sopraffatti da una mole assurda e direi financo ingiusta di lavoro. La nostra giornata lavorativa finisce alle 24 e comincia alle 8. Il lavoro di insegnante di liceo si è tramutato in un’abnorme proliferazione di riunioni e pile di scartoffie, moduli, griglie, recuperi, progetti, consigli, incontri, formazione, verbali, firme, suppliche, riforme, circolari, scadenze, corsi, ricorsi, urgenze, responsabilità, pagelle, pagelline, test, simulazioni, simulazioni di simulazioni, simulazioni di simulazioni di simulazioni, una realtà insomma in cui la lezione mattutina è un fastidioso fossile di un mondo vecchio e superato, direi obsoleto, da archiviare in nome della cultura del fare, del fare altro ovviamente, qualsiasi cosa che non sia insegnare o imparare…”.
La seconda.
“… sono sopraffatta dal lavoro ‘burocratico’. Le mie energie sono agli sgoccioli, e devo ancora svolgere un’immane quantità di adempimenti sulla piattaforma INDIRE: relazioni, riflessioni, bilanci, resoconti di attività didattiche. La mia ansia cresce di giorno in giorno per l’accavallarsi di pensieri, preoccupazioni, scadenze, impegni “.
Nel leggere le missive – caustica la prima, accorata la seconda – penseremmo a insegnanti non al passo con i tempi, magari prossimi alla pensione. Sono invece docenti poco più che quarantenni. Ambo le lettere mostrano un acuto disagio per la scuola come organizzazione. Beninteso griglie, simulazioni, relazioni non sono inutili. Il problema scatta quando questi impegni diventano soverchianti e costringono a posporre lo studio, la preparazione, la ricerca, e anche la lettura disimpegnata. Far lezione richiede tempo, serenità, applicazione, frequenza delle biblioteche. Richiede anche stimoli culturali di varia specie: ascoltare conferenze, frequentare teatri, visitare mostre, vedere film, seguire concerti eccetera. La cultura di un docente, di discipline scientifiche o umanistiche poco importa, si alimenta attraverso tanti canali.
L’organizzazione della scuola, così come si è venuta strutturando, punterebbe a uno scopo virtuoso: misurare e valutare gli apprendimenti e le modalità d’insegnamento al fine di migliorarli. Ma il proposito si è metamorfizzato: il mezzo è diventato un fine. Ha perso il senso originario, il meccanismo gira a vuoto, satura il tempo, mortifica gli insegnanti, ne spegne l’entusiasmo.
Misurare il merito, valutare le prestazioni attraverso indicatori può avere un senso positivo se lo si fa cum grano salis, con intelligenza, senza invadenza. Lo scopo della scuola è di trasmettere conoscenza, non di rincorrere un efficientismo astratto e sterile. Se anche ragionassimo in termini strettamente aziendalistici, che costo comporta il tempo dedicato a queste attività e sottratto al vero lavoro del docente, alla lettura, alla riflessione, alla correzione dei compiti, all’attenzione profonda verso gli studenti? Ministri, direttori generali, pedagogisti, economisti, dirigenti non dovrebbero interrogarsi seriamente?
Non parlo dell’Università: le distorsioni determinate da tali meccanismi e procedure sono assai gravi, forse perfino peggiori che nella scuola. Meritano un capitolo a parte.