Secondo il Tribunale civile, le operazioni proposte dalla banca "non erano assolutamente coerenti con il profilo di rischio della società" e, anzi, "assolutamente inappropriate". Per il giudice l'imprenditore ha effettuato "investimenti in maniera inconsapevole, senza conoscere adeguatamente natura e tipologia degli strumenti finanziari sottoscritti". L'istituto: "Faremo appello"
C’è un nuovo capitolo nell’affaire Unicredit-Divania, impresa barese dichiarata fallita nel 2011 dopo aver sottoscritto contratti derivati ad altissimo rischio a partire dal 2000 e aver dovuto licenziare tutti i dipendenti nel 2006. Dopo le decisioni in ambito penale – le assoluzioni dei dirigenti in Cassazione per alcune ipotesi di reato e la richiesta di rinvio a giudizio per concorso in bancarotta fraudolenta – arriva una sentenza del Tribunale civile di Bari.
Il giudice monocratico del Valentino Lenoci ha condannato la banca Unicredit al pagamento di 12.681.776 euro in favore della curatela del fallimento, somma che corrisponde alle presunte perdite dovute agli investimenti in derivati. Il verdetto riconosce: “le gravi violazioni poste in essere” dall’istituto di credito “nella gestione dell’operatività in strumenti finanziari derivati” sottoscritti dal titolare dell’azienda, l’imprenditore Francesco Saverio Parisi, fra il 2000 e il 2005. Per il pm di Bari, che ha chiesto il processo per i vertici della banca – dai conti di Divania sarebbero stati drenati 183 milioni di euro. Accusa sempre respinta dall’istituto.
Secondo il Tribunale civile, le operazioni in derivati “non erano assolutamente coerenti con il profilo di rischio della società Divania” e, anzi, “assolutamente inappropriate“. Il giudice ritiene infatti che l’imprenditore abbia effettuato “investimenti in maniera inconsapevole, senza conoscere adeguatamente natura e tipologia degli strumenti finanziari sottoscritti”.
I contratti derivati sottoscritti fra il 2000 e il 2005 “non avevano una funzione protettiva dal rischio – si legge ancora nella sentenza – ma presentavano una forte componente speculativa, della quale Unicredit non aveva fornito alcuna informazione a Divania”. L’80 per cento di quei contratti, infatti, costituiva una ristrutturazione di precedenti operazioni “con la specifica finalità di compensare le perdite e trasferirle nei nuovi contratti”.
Il giudice rileva, inoltre che “lo statuto di Divania non contemplava la possibilità di effettuare simili operazioni, anzi, inibiva ogni attività non necessaria per la fabbricazione e commercializzazione di poltrone e divani”, sottolineando tra l’altro la “mancanza, in capo a Divania e a Parisi, dei fondamentali requisiti di competenza ed esperienza in materia”. Circostanza della quale Unicredit, secondo il Tribunale, era a conoscenza. Per il giudice vi sono state “gravissime violazioni compiute da Unicredit, con riferimento agli obblighi informativi da porre in essere al momento della stipulazione delle singole operazioni” e vi è stata “notevole superficialità nella gestione documentale dell’operatività in essere”. Secondo il giudice, “la condotta della banca ha cagionato una serie rilevantissima di danni”.
Nel procedimento, avviato nel 2009, Divania chiedeva più di 80 milioni di euro come risarcimento danni anche per la “mancata redditività dovuta alla distrazione delle risorse finanziarie”. Il giudice però afferma che “non vi è invece prova di altri danni da considerare quale conseguenza immediata e diretta dell’operatività in derivati“.
UniCredit in una nota fa sapere che “non condivide la sentenza e si riserva di proporre appello” ribadendo “ancora una volta che le vere ragioni del default di Divania sono contenute nella sentenza dichiarativa del suo fallimento del giugno 2011, confermate anche dalla Corte d’Appello di Bari che nella sostanza escludono che la contestata operatività in derivati abbia potuto rappresentare anche solo una concausa del dissesto di Divania. Questa sentenza – conclude la banca – peraltro ridimensiona fortemente l’entità delle pretese risarcitorie azionate contro UniCredit che infatti ne ha sempre contestato la fondatezza”.