Un paio di settimane fa ero a Parigi. Ci ero andata di mia iniziativa, perché volevo vedere come funzionava una delle maggiori startup europee, in cosa si impegnano oggi i giovani. Di testa mia, come al solito quando tengo particolarmente a qualcosa, sono partita perché volevo capire meglio quale fosse il futuro dell’industria digitale e della sharing economy. C’ero andata con la consapevolezza che, tornata in redazione, qualcuno mi avrebbe ascoltato se avessi fatto un buon lavoro. E che se non mi avessero ascoltato, avrebbero avuto almeno la delicatezza di dirmi perché. O se non avessi fatto un buon lavoro, quella di spiegarmi come avrei dovuto farlo.
Caso vuole che la sera, a cena, io mi ritrovi seduta accanto a due italiani. Due ragazzi 28enni, miei coetanei, che avevano frequentato lo stesso liceo a Roma e che si rivedevano per la prima volta dopo otto anni. Giorgio, sviluppatore, nomade digitale, ha creato una App per i servizi di ristorazione e ora gira il mondo perché può gestire la sua impresa da qualsiasi luogo. Francesco, ingegnere energetico, lavora per un’azienda nucleare in Francia. Vorrebbe tornare in Italia, ma non ci riesce.
Mentre mangiamo (una strana sarda affumicata che giuro non proverò mai più in vita mia) finiamo a parlare del giornalismo in Italia. Giorgio mi racconta di quella che definisce la “tecnofobia” che hanno i giornalisti, la paura di parlare di tutto ciò che è innovazione e tecnologia, quella “puzza di vecchio” che si sente nel panorama informativo del nostro Paese. Francesco, invece, all’improvviso e con una punta di sfida mi fa notare che quello che non ama del giornalismo è il fatto di non potersi fidare. “Se mi capita di leggere su un giornale una notizia su un tema che conosco e mi accorgo che mi stanno dicendo stupidaggini – mi dice – perdo fiducia. Se il giornale toppa sulle cose che conosco, chi mi assicura che non menta su quelle che non conosco?”.
Come dargli torto? Mi sono sentita in imbarazzo, esposta. Mi sono fermata a fare autocritica, mi sono chiesta se potevo stare lì con la coscienza pulita, se potevo affrontare a testa alta quella discussione. Ma mentre esaminavo, annuendo, queste sensazioni contrastanti, mentre come al solito mi facevo mille problemi, è stato proprio Francesco a togliermi dagli impicci. “Ti dirò, leggo Repubblica da quando sono piccolo. I miei genitori lo compravano ogni giorno. Eppure, il più bell’articolo che ho mai letto sulle questioni energetiche, quello più obiettivo e intelligente, l’ho letto sul Fatto Quotidiano”.
Puff, nubi diradate. Mi sono ricordata della libertà, quella vera, che ho respirato quando sono entrata per la prima volta in questa redazione. Anzi, ancora prima, mi sono ricordata della proposta fatta al Fatto Quotidiano quando ero appena uscita dalla scuola di giornalismo e dopo diversi stage in altre redazioni: un lavoro di fine corso su come ragazzi e ragazze guadagnino migliaia di euro al mese vendendo oggetti, borse e vestiti contraffatti su Facebook. Ricordo ancora che nell’intestazione della mail scrissi: “So che i giornali non prendono in considerazione proposte di persone che non conoscono, però ci provo lo stesso”. E ricordo l’immediata risposta. “Guardo e ti faccio sapere”.
E poi, mi hanno fatto sapere davvero. Mi chiesero di ridurre un’intera inchiesta online in un pezzo per l’edizione cartacea, mi dissero quali fossero le imprecisioni e gli elementi poco chiari, come riscrivere certi passaggi, i luoghi comuni da evitare, le sigle da spiegare, il racconto da rendere comprensibile anche per chi non sapesse cosa fosse Facebook. Mi dissero di pensare al lettore, prima di tutto. Insomma, avevo iniziato una nuova scuola, quella vera. “Non ti conosciamo – precisarono –, non saremo noi a inseguirti. Tu però fai le proposte. Se sono buone, le prendiamo”.
Eccola, la libertà. Iniziavo a vederla: io, che quando mio padre comprava il Fatto Quotidiano pensavo che non potesse essere un giornale nelle mie corde. Troppo urlante, dicevo a 19 anni, cresciuta in una beata moderazione di pensieri e intenti. Troppo unidirezionale, ripetevo senza neanche aprirlo quando mi indicavano le inchieste e i pezzi su Berlusconi. Poi, mi è bastato leggerlo per capire. E oggi, dopo aver anche visto un po’ di cose, ho la consapevolezza che urlare è libertà. Ed è libertà dire le cose a bassa voce. L’importante e non stare zitti, perché “il silenzio è dei colpevoli” (citazione non mia, purtroppo). Poi ho capito che libertà è l’onesta di dare notizie vere e verificate al lettore, far capire le notizie a chi legge, in modo chiaro e senza alterazioni e giri di parole. I concetti, le idee: tutto fino in fondo perché c’è il diritto di essere informati. Ma c’è anche quello di prendere una posizione, che è la sacrosanta libertà di espressione.
Così, l’ho detto a Francesco e Giorgio quella sera. E lo dico a chi leggerà questo pezzo, consigliandogli di unirsi al Fatto Social Club: “Una sola cosa conta nell’informazione, nel rapporto di fiducia tra lettore e giornalista: l’onestà intellettuale. Che è quella di chi ha il coraggio di dire le cose come stanno, non quella di chi spaccia come scoop le carte passate dal governo sulla prossima riforma o di chi celebra in anteprima un nuovo computer solo perché lo ha avuto in regalo dall’azienda. L’onesta intellettuale è quella di chi racconta dove stanno le falle, gli interessi, le fregature. E se c’è qualcosa di buono, anche quello: basta che interessi al lettore e non a chi lo scrive”.
A me stessa ho detto che quello che io credevo fosse solo “urlare”, era in realtà un “farsi sentire” in un mare di informazione che spesso confonde il tentativo di obiettività con l’eccessiva mansuetudine. Ho ammesso con me stessa che alcune cose, se non le racconta il Fatto Quotidiano, non le racconta nessuno. Ho sentito molti giornalisti criticarlo, e tutti ogni volta aggiungere “ce ne fossero più giornali così”. Ho incontrato colleghi che ogni giorno hanno avuto (e hanno) la pazienza di spiegarmi in quali trappole non cadere per fare informazione. Ho capito che non sempre quello che appare come neutralità e oggettività lo è davvero: spesso o è superficialità o ancor peggio è malafede mascherata. E qui, ve l’assicuro, ci sono giornalisti per bene. Si possono fare degli errori, ma la cosa più importante è essere intellettualmente onesti, liberi come sono. E come meritano di continuare ad essere: non solo per loro stessi, ma per Giorgio, Francesco e tutti voi. E anche per me.