“I’m gonna make him an offer he can’t refuse”. Quando dici mafia al cinema pensi a Don Vito Corleone. Non c’è politicamente corretto che tenga. La maschera cupa, sinistra e dolente del mafioso al suo complicato e triste tramonto, interpretata da Marlon Brando ne Il Padrino di Coppola (1972), è l’archetipo del genere, la constatazione chiara e semplice che le mafie, in tutte le declinazioni storico/geografiche che l’Italia mestamente prevede, possono diventare racconto, narrazione, ricreazione finzionale del reale.
Passati quei quarant’anni, ma forse anche di più, dalle prime tracce imbevute di boss con la coppola e crudeli vendette per questioni “d’onore”, il vaso sembra essere colmo. Poi all’improvviso la fonte si rianima e sembra ancora esserci spazio per un altro mafioso con problemi esistenziali, leggerezze comiche in dialetto per fare cassa, efferati criminali disegnati con lo stampino che nemmeno più si distinguono se in azione al quartiere Brancaccio, a Scampia o al San Basilio. Rovello etico legittimo, rimpallato tra una seduta dall’analista di Tony Soprano/James Gandolfini e la battuta di Paolo Bonacelli in Johnny Stecchino (“le piaghe di Palermo riconosciute nel mondo? Lei sa di cosa parlo…l’Etna, la siccità, e il traffico”). Scherzare con una questione così seria si può e si deve, diceva qualcuno.
“Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”, affermava Paolo Borsellino. I dizionari del cinema esistono apposta per mettere ordine a date, approcci e significati sul tema. Con o senza lupara. In principio fu In nome della legge di Pietro Germi (1948), spettacolare intromissione (non la prima) di Germi nell’antropologia siciliana. Con un respiro più western che d’inchiesta il regista del Maledetto Imbroglio…, assieme a Fellini e Monicelli allo script, per alcuni critici fece proprio un “pasticciaccio” soprattutto a livello di semplificazione di buoni vs. cattivi, con quel pretore interpretato spavaldamente modello sceriffo del west da Massimo Girotti. Bisogna attendere Francesco Rosi con il suo Salvatore Giuliano (1962) – poi con Le mani sulla città, Cadaveri eccellenti, Lucky Luciano e in buona parte Il caso Mattei – per scoperchiare il bubbone purulento del groviglio tra criminalità organizzata e istituzioni nazionali. Cinema d’impegno civile con uno sguardo vista mafia che lascia esterrefatti per coraggio e lucidità trent’anni prima dell’Antimafia. Corrosivo e dimenticato è poi Mafioso (1962) di Lattuada con il grottesco e pavido Sordi in trasferta sicula sceneggiato da Azcona, Ferreri, Age e Scarpelli. Poi ancora A ciascuno il suo di Petri, tratto da Sciascia (1966) e Il giorno della civetta di Damiani (1968).
Con i primi anni settanta il tentativo del poliziesco nel rendere le mafie una questione di routine e sfondo di genere sembra decollare (Il boss di Di Leo, Il consigliori di De Martino, ecc..), quando improvvisamente irrompe a livello internazionale Francis Ford Coppola e la rappresentazione si accoda ad una generale essicazione della stanza del boss di turno da cui tutto scaturisce. Ecco arrivare l’epica scorsesiana (vedi su tutti Quei bravi ragazzi), l’Al Capone di De Palma ne Gli intoccabili e il clan dei Prizzi nell’omonimo Onore dei… diretto da John Huston. Macchietta, stereotipo, scorciatoia di scrittura, il boss e la sua gang deviano in una generica criminalità brutale e sanguinaria spesso non più legata alle radici italiche, ascissa ed ordinata di una soluzione ora lontana dall’essenza e dal contesto originari. Se non fosse stato per La Piovra, lo sceneggiato tv con protagonista Michele Placido nei panni del commissario Cattani, quattro stagioni (’84-’89) con 14 milioni di spettatori a puntata in media, ci saremmo dimenticati che il problema mafia in Italia esistesse.
Ma è con la rivoluzione politica e giudiziaria del 1992 che tra i produttori del belpaese torna l’interesse per il tema delle mafie. Subito però il nostro cinema abbandona gli scenari corali per la narrazione dell’eroe singolo: Giovanni Falcone di Giuseppe Ferrara, Il giudice ragazzino di Alessandro Di Robilant, Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca e I cento passi di Marco Tullio Giordana, solo per dirne alcuni. Alla luce del sole di Roberto Faenza con Luca Zingaretti alias Don Pino Puglisi fatica ad essere girato a Palermo nei veri luoghi dove il prete venne ucciso nel 1993.
“C’è una concentrazione degli eroi destinati alla sconfitta, dei personaggi come scrive lo storico De Luna, a “tema vittimario”, preti, sindacalisti, poliziotti, giudici, che hanno combattuto la battaglia morendo”, spiega al FQMagazine, Andrea Meccia, autore del saggio Mediamafia – editore Di Girolamo. “Dall’altro lato troviamo invece l’esaltazione dell’eroe negativo, recentemente con Il capo dei capi, le serie Romanzo Criminale e Gomorra. Entrambi i lati della medaglia restituiscono una dicotomia che non c’è mai stata, e tendono a non restituire la complessità del reale. Faccio solo un esempio nel raccontare due grandi personalità come Falcone e /o Borsellino si dimenticano ad esempio gli altri componenti del pool antimafia, Loenardo Guarnotta o Giuseppe Di Lello per dirne due che hanno contato molto all’epoca”.
L’esplosione dell’attenzione per i libri di Romanzo Criminale di De Cataldo e Gomorra di Saviano ha poi aperto l’ultimo capitolo della rappresentazione delle mafie al cinema e infine in tv. Ecco arrivare nel breve volgere degli ultimi dieci anni i rispettivi film di Placido e Garrone, poi le serie tv che spopolano, almeno in Italia, ben di più de I Soprano. Solo che passati i decenni e decine di prototipi che si sono fatti matrici, il rischio odierno sembra più essere l’anestetizzazione da ripetizione. Ovvero un lento svuotamento dello spunto d’analisi sociale, politica, criminale alla radice per far posto ad una reiterazione seriale che appiattisce caratteri, atmosfere, e azioni sul set. “Sono d’accordo con questa ipotesi, è sicuramente una linea di tendenza che definirei “effetto soap”, con recitazioni poco naturali in cui si parla con sentenze bibliche e nessuna grossa invenzione di scrittura”, aggiunge Meccia. Chi salviamo allora dei mafia movie che hanno letteralmente invaso grande e piccolo schermo? “I cento passi per la passione politica; Anime nere per aver aperto gli occhi di fronte alla ‘ndrangheta, tema mai affrontato al cinema; Belluscone di Franco Maresco che ha lavorato dove altri per moralismo non riescono a lavorare; e soprattutto Il Ladro di bambini di Gianni Amelio (1992) che pur non parlando direttamente di mafia sa restituire la complessità di un momento storico, la fine della prima repubblica, morta con gli attentati di Palermo e Tangentopoli”.