Altro che referendum revocatorio nei confronti del presidente Nicolas Maduro. Consapevole delle crescenti difficoltà che comporta una scelta del genere, dettagliatamente regolamentata dalla Costituzione bolivariana (art. 72), che pone precisi requisiti in termini di firme da raccogliere e di voti da esprimere, evidentemente fuori dalla portata della destra di opposizione, i leader di quest’ultima stanno rivolgendo chiari appelli agli Stati Uniti affinché intervengano militarmente contro il governo chavista. Il “la” al vergognoso coro di invocazioni della guerra l’ha dato un professionista dei crimini contro l’umanità come l’ex presidente colombiano Uribe.
D’altronde bisogna capirlo, il raggiungimento dell’agognato accordo di pace fra governo colombiano e Farc lo metterebbe fuori gioco, con la prospettiva di finire addirittura di fronte alla Corte penale internazionale per i suoi molteplici misfatti. Quindi tanto vale tentare di buttarla in caciara dando fuoco a tutta l’area. Sulla scia di cotanto campione della pace e della democrazia si sono succedute le querule richieste di aiuto di vari esponenti della destra venezuelana.
Gli Stati Uniti del resto, pur consapevoli delle difficoltà e dei rischi di un intervento militare, non si lasceranno certo scappare tanto facilmente un’occasione d’oro di rimettere le zampe su uno dei principali giacimenti petroliferi del mondo. In tale ottica vanno lette scelte apparentemente incomprensibili, come quella di dichiarare il Venezuela una minaccia per gli interessi e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Come pure gli ingenti finanziamenti all’opposizione venezuelana, compresa la sua ala militare e l’utilizzo di apparati sofisticati di intercettazione e controllo come il Boeing 707 E-Sentry, che negli ultimi giorni ha violato più volte illegittimamente lo spazio aereo venezuelano. Più o meno nella stessa logica di ingerenza negli affari interni venezuelani si situano i patetici tentativi di riesumare un’organizzazione oramai fortemente delegittimata come l’Organizzazione degli Stati americani applicando la sua cosiddetta “Carta democratica“, che tuttavia si spinge al massimo fino a prevedere la sospensione dello Stato in cui si registrino violazioni della democrazia con voto dei due terzi degli Stati membri.
A dir poco buffo appare il fatto che il segretario di tale moribonda organizzazione, tale Almagro, iperattivo sulle vicende venezuelane, si sia limitato, per quanto riguarda la situazione brasiliana, a invocare con scarso successo il parere consultivo della Corte interamericana dei diritti umani; questo nonostante il fatto che in tale ultimo paese, a seguito del golpe giudiziario e parlamentare contro Dilma Rousseff, dovrebbe governare per lungo tempo un vicepresidente come Temer, notoriamente corrotto e appoggiato da un’irrisoria percentuale della popolazione. Tornando al Venezuela, il meccanismo dell’invasione è stato già messo in moto da tempo. Si parla al riguardo anche dei contingenti statunitensi già stanziati in Honduras, il paese dove ha avuto inizio, con l’illegittima destituzione del presidente Zelaya, la serie dei golpe più o meno blandi contro i presidenti democratici restii ad avallare la tradizionale subordinazione dell’America Latina a Washington. L’ultima tappa è stato il vero e proprio golpe giudiziario e parlamentare dei corrotti contro la presidente brasiliana Dilma Rousseff.
L’intervento militare statunitense contro il Venezuela bolivariano e chavista rappresenterebbe la ciliegina sulla torta di questa strategia di riconquista. Alla faccia ovviamente, come al solito, di qualsiasi principio giuridico internazionale. Si può ovviare con una massiccia campagna mediatica che vede schierati i pezzi forti della stampa dell’establishment, a partire dal New York Times e Washington Post. Per creare un clima adeguato, i settori violenti dell’opposizione vogliono rilanciare la guarimba, la campagna di disordini che fece 43 vittime due anni fa, tra le quali molti poliziotti o passanti casuali, uccisi da colpi di arma da fuoco o decapitati dai fili di ferro messi dai guarimberos per bloccare le strade. Continua inoltre la guerra economica, imboscando i beni di prima necessità e sabotando i servizi sociali fino al punto di incendiare, come è stato fatto in varie occasioni, gli asili nido e i centri di salute.
Questa strategia irresponsabile punta in sostanza a trasformare il Venezuela in un nuovo Iraq e tutta l’area caraibica in un nuovo Medio Oriente. Laddove non è in grado, e sempre meno lo è, di produrre egemonia e consenso, l’imperialismo dominante diffonde a piene mani sanguinaria destabilizzazione. Forte del consenso ottenuto alle elezioni di dicembre, l’opposizione avrebbe potuto imboccare la strada dell’unità nazionale e della leale collaborazione per risolvere i problemi economici del paese. Sarebbe stato peraltro troppo pretendere un atteggiamento responsabile nei confronti del popolo da oligarchi abituati a considerare sempre ed esclusivamente prioritari i propri interessi di bottega, a costo di sacrificare perfino un’indipendenza e sovranità nazionale delle quali in fondo non sanno proprio che farsene, data la limitatezza della loro visuale e la loro innata propensione alla servitù incondizionata nei confronti di Washington.
La prospettiva, quale che sia il vincitore alle prossime elezioni presidenziali statunitensi (con l’eccezione, peraltro purtroppo improbabile, di Bernie Sanders) è quella di scatenare una nuova guerra d’aggressione, stavolta vicino casa. Del resto l’abbondante petrolio venezuelano merita uno sforzo supplementare. Vittime predestinate di questo avventurismo sarebbero ovviamente il popolo venezuelano e la pace mondiale. Occorre quindi sperare che si fermi questa spirale verso la guerra, il che può avvenire solo, come ha dichiarato Maduro, con una ripresa ed estensione delle lotte popolari in Venezuela e in tutta l’America Latina, per una nuova fase della rivoluzione democratica, che superi i limiti di vario genere fin qui sofferti.