Lo sapevo, lo sapevamo tutti, che se ne stava per andare. La voce impastata, le foto struggenti, lui improvvisamente vecchio che con il calice in mano brindava alla vita mentre la morte lo divorava. Nella sua casa di sempre, la mansarda a Fontana di Trevi. Uno di questi giorni vado a trovarlo, mi dicevo, ma ogni volta rimandavo quasi per scaramanzia, a trattenermi era soprattutto il cupo pellegrinaggio dei tanti che aspiravano all’ultimo selfie. Non è poi così urgente, pensavo, anche stavolta ce la farà, Marco non morirà mai, invece la notizia è arrivata improvvisa come una pugnalata
Sono stata radicale, tanti anni fa. Il mio debutto in politica fu uno sciopero della fame contro i colonnelli greci, mi sembra nell’inverno del ’66. Serviva una ragazza che andava ancora a scuola: “Eccomi qui”, dissi a Pannella e armi e bagagli, facendo arrabbiare mia madre, mi trasferii nella prima sede del partito Radicale, che era ancora in via 24 maggio, la salita del Quirinale, dove da qualche giorno mi aggiravo affamata di ribellione in quelle stanze gelide, piene di fumo, dove c’era chi circolava nudo, come quella coppia di Provo di Bologna che dormiva nei sacchi a pelo in bagno.
Un mondo nuovo, carico di speranze e passioni, si apriva ai miei occhi, quelli di una ragazzina che indossava ancora il vestitino cucito dalla mamma e la collanina di perle che le avevano regalato per la Prima comunione. Prima di scoprire i jeans e l’Eskimo. Ricordo Marcello Baraghini, Massimo Teodori, Barbara Spinelli, il già anziano – così almeno mi sembrava – avvocato Mellini, Gianfranco Spadaccia. Un presidio rivoluzionario dove tutti dicevano che bisognava cambiare il mondo. E poi davvero lo hanno cambiato, grazie a lui, Marco Pannella, alla sua inesauribile passione ed energia. Lo ricordo che si aggirava in quelle stanze immerso in maglioni sformati, biondo e bello come l’Arcangelo Gabriele. Gli occhi azzurri, magnetici, luciferini di chi sa che per salire al cielo deve scendere negli abissi dell’inferno.
Aderii alla squadra di ragazzi che avrebbe fatto la campagna sul divorzio, il mio primo compito fu raccogliere firme per il referendum. Ricordo la processione incessante di coppie giovani e vecchie che mi raccontavano storie infelici di matrimoni falliti, diritti negati, figli non riconosciuti. Chi non ha vissuto quell’esperienza davvero non conosce il prima e il dopo, il divorzio cambiò la cultura dell’Italia e il nostro modo di vivere. Tornavo a casa e chiedevo a mia madre: “Perché tu e papà non vi siete separati?”, i motivi c’erano eccome. “L’ho fatto per te, per farti studiare”, mi rispondeva rigida, con lo sguardo disperato di chi già considera la figlia perduta, lei che voleva vederla sposata con l’abito bianco, poi sottovoce mi chiedeva se avevo preso la pillola. Tanto per evitare il peggio. Marco, ai suoi occhi, era davvero il diavolo. Per farla contenta qualche anno dopo mi sono sposata, in giacca e pantaloni, al Comune e non in Chiesa. Meglio di niente, ma non me lo ha mai perdonato.
Con il ’68 quell’esperienza era per me finita. Eppure è stato Marco con i suoi scioperi della fame, la sua perenne ribellione contro il sistema partitocratico, contro il clericalismo e ogni ipocrisia, a fare di me una donna libera. Era carico di rabbia e pieno di amore, un eterno ragazzo ribelle che gli anni non hanno cambiato. Quando andai a lavorare al Messaggero ci incontravamo spesso dal tabaccaio in via della Panetteria, il nostro pusher. Non fece mai una parola sul fatto che me ne ero andata, sapeva che in fondo ero rimasta.