La Corte d'Appello di Roma conferma la sentenza di primo grado che, nel condannare il Ministero per non aver protetto adeguatamente Salvatore Vacca, morto nel 1999 dopo aver servito in Bosnia, aveva riconosciuto il nesso causale fra l'esposizione all'uranio impoverito nei Balcani e l'insorgere della malattia. Ai familiari andrà un milione e mezzo di euro
Aveva servito in Bosnia in diverse missioni fra il 1998 e il 1999. Il caporalmaggiore della Brigata “Sassari” Salvatore Vacca morì di leucemia solo pochi mesi dopo, a 23 anni, nel settembre del 1999: la malattia fu causata – lo ha ribadito una sentenza di Appello – dell’esposizione continuata a munizioni all’uranio impoverito di cui erano fatti i proiettili delle armi usate nel conflitto dei Balcani.
Per la Corte d’Appello di Roma, che ha confermato la sentenza di primo grado, il ministero della Difesa è “responsabile di condotta omissiva per non aver protetto adeguatamente il militare”. E sarà quindi tenuto a risarcire la famiglia del militare per oltre un milione e mezzo di euro. Il caporalmaggiore fu impiegato per 150 giorni in Bosnia come pilota di mezzi cingolati e blindati. Trasportò munizioni sequestrate, materiale che, scrivono i magistrati, si sarebbe dovuto considerare “come ad alto rischio di inquinamento da sostanze tossiche sprigionate dall’esplosione dei proiettili” e i rischi “si devono reputare come totalmente non valutati e non ottemperati dal comando militare”. Questa condotta omissiva, secondo i giudici, “configura una violazione di natura colposa delle prescrizioni imposte non solo dalle legge e dai regolamenti, ma anche dalle regole di comune prudenza”.
Nell’organismo del militare sono state identificate svariate particelle di metalli pesanti non presenti per natura nell’uomo e ciò è, per i giudici, “la conferma definitiva del reale assorbimento nel sistema linfatico di metalli derivanti dalla inalazione o dalla ingestione da parte del militare nella zona operativa”. Ma Salvatore Vacca fu solo uno fra le decine di militare reduci dalla Bosnia e dai Balcani nella seconda metà degli anni ’90, che vennero colpiti da patologie provocate da esposizione all’uranio impoverito o al radon, un gas radioattivo che deriva dallo stesso metallo. É di esattamente un anno fa un’altra sentenza della stessa Corte, che riconosceva con “inequivoca certezza” il nesso di causalità tra l’esposizione alla sostanza tossica e l’insorgere della malattia.
Nel 2010, il ministero della Difesa aveva istituito un “Gruppo progetto uranio impoverito” per studiare il fenomeno e valutare eventuali richieste di risarcimento. Fu istituito un fondo di 10 milioni l’anno, per venire incontro a queste richieste, quando accolte. Ma da allora, come riportato da un’inchiesta del settimanale L’Espresso, agli sportelli del ministero erano arrivate – all’anno scorso – 532 domande da parte di militari. Di queste, dopo essere state esaminate da una commissione medica ad hoc, “circa il 25% sono state accolte”, dicono dal ministero. Oltre il 70%, quindi, sono tornate indietro.
Sono così andati crescendo a dismisura i ricorsi contro i pareri negativi del Ministero: una trentina le sentenza di condanna da parte della giustizia civile e della Corte dei Conti. Buona parte di queste cause, in tutta Italia, sono state seguite dall’Osservatorio Militare presieduto dal maresciallo in pensione Domenico Leggiero. Che a commento del pronunciamento della Corte d’Appello di Roma del 20 maggio 2016 spiega: “É una sentenza storica, perché conferma la consapevolezza del ministero del pericolo a cui andavano incontro i militari in missione in quelle zone”.