L’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha recentemente sanzionato l’ex direttore di Libero, Maurizio Belpietro, e il giornalista Mario Giordano per un vecchio articolo riferito ai rom. Il testo incriminato è stato pubblicato l’8 novembre 2015 col titolo “Ci teniamo i killer rom, premiamo i ladri”. Riportando un fatto di cronaca nera, il giornalista scrive: “Facciamoci massacrare. Facciamoci ammazzare. Aspettiamo che tocchi a noi. Aspettiamo il nostro turno. Aspettiamo una sera che l’orrore bussi alla porta della nostra casa travestita da rom. Mi raccomando dite rom (…) e non zingari che altrimenti la Boldrini s’indigna. Anche quando vi stanno uccidendo a suon di botte, mentre vi frantumano i denti e le mascelle, mentre vi mandano al creatore per portarvi via la miseria accumulata nel salvadanaio con una vita di sacrifici, ricordatevelo bene: si dice rom”.
L’articolo è stato punito con la censura, non intesa nel senso comunemente conosciuto ma in quanto sanzione disciplinare inflitta “nei casi di abusi o mancanze di grave entità che consiste nel biasimo formale per la trasgressione accertata”, come previsto dall’Ordinamento della professione di giornalista. L’articolo in questione rappresenta infatti un classico esempio di narrazione dei fatti in cui il reato di un singolo si trasforma nel crimine di un’intera etnia e quindi nella condanna generalizzata di tutte le persone che fanno parte di quella stessa comunità. Un punto di vista che un giornalista non può professionalmente permettersi, considerando la visibilità e quindi l’impatto che la propria opinione potrebbe avere sul suo pubblico di lettori e magari sull’opinione pubblica in generale.
Gli articoli di questo genere sono tuttavia una realtà sempre molto diffusa, così come dimostra la ricerca condotta dall’associazione fiorentina Cospe all’interno del progetto BRICKS, che analizza i cosiddetti casi di “hate speech” (discorso d’odio) online, analizzando testate giornalistiche, blog e piattaforme web, col fine di denunciare e comprendere le dinamiche degli episodi di istigazione all’odio e discriminazione razziale presenti in rete. “I forum dei giornali online, – si legge nella ricerca – i commenti a margine degli articoli, le pagine Facebook delle testate nazionali e locali sono ormai i luoghi virtuali in cui dilagano i discorsi d’odio che prendono di mira i rifugiati e i cittadini di origine straniera e purtroppo si tratta di un fenomeno difficilmente monitorabile e controllabile. Ai discorsi razzisti diffusi dalle persone comuni si aggiunge poi una caratteristica tipicamente italiana, ovvero i discorsi, gli slogan e le affermazioni di stampo discriminatorio e xenofobo pronunciati da personaggi pubblici e con ruoli di potere, che criminalizzano i migranti e i rifugiati e alimentano astio verso intere comunità o nazionalità”.
“Nel 2014 l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) ha registrato 347 casi di espressioni razziste sui social, di cui 185 su Facebook e le altre su Twitter e Youtube. A questi se ne aggiungono altri 326 nei link che le rilanciano per un totale di 700 episodi di intolleranza. Nel suo rapporto annuale relativo all’anno 2014, l’Unar ha rilevato già un trend in aumento per il 2015 rispetto a questi fenomeni, affermando che offese e messaggi stigmatizzanti verso specifici gruppi nazionali e minoranze sono sempre più spesso veicolati attraverso i new media e i social networks. Altri dati vengono forniti da Oscad (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori), che nel 2013 ha rilevato 231 segnalazioni di atti discriminatori, di cui 65 riguardavano il web”.
Un fenomeno analizzato anche dal recente rapporto della Fondazione Seta su L’Islamofobia in Italia nel 2015, il quale studia i numerosi atti di discriminazione e violenza razzista nei confronti di cittadini di religione musulmana nei media, di cui si sono registrati numerosi casi, soprattutto dopo gli attacchi terroristici di Parigi e Bruxelles. Per questo, pur non mettendo minimamente in discussione la libertà di espressione e di stampa, rimane sempre fondamentale appellarsi ad un’etica deontologica che limiti la fallibilità dei giornalisti e tenga l’informazione lontana da derive discriminatorie e xenofobe, che nulla hanno a che vedere col ruolo e l’importanza che il giornalismo riveste all’interno di una società.