Vince il cinema di chi non si arrende, di chi vuole ancora dare un messaggio di speranza di fronte a un “mondo in serio pericolo”. In altre parole, al 69° Festival di Cannes vince Ken Loach con il suo potente I, Daniel Blake. Già Palma d’oro nel 2006 per Il vento che accarezza l’erba (e per tre volte in carriera Prix du Jury a Cannes), il cineasta britannico soprannominato Ken il Rosso alla soglia degli 80 anni non ha risparmiato parole importanti ricevendo la sua seconda Palma davanti a una platea commossa e in standing ovation: “Vinciamo questo premio con un film che mostra una realtà molto strana, cioè quella dei cittadini della quinta nazione più potente al mondo che soffre la fame, stremati da un’austerità dovuta a ideologie neoliberali. Queste ci porteranno alla catastrofe. Per fortuna ci sono milioni che ancora combattono, perché il pericolo della disperazione avvantaggia le destre estreme ma noi ci dobbiamo ricordare che abbiamo un messaggio importante da dare, ovvero che un altro mondo è ancora possibile e necessario”.
Considerato tra i favoriti dalla critica e dal pubblico già dalle prime proiezioni al festival, I, Daniel Blake racconta di un semplice e marginale 60enne da Newcastle che non può più lavorare per problemi di salute ma neppure ricevere il sussidio per una burocrazia di kafkiana impenetrabilità. Il suo cammino verso un tentativo di giustizia si accompagna a quello della giovane Katie, madre single di due bimbi con seri problemi di sopravvivenza. Celebrando sul palco del Grand Théàtre Lumière il suo riconoscimento con i sodali Paul Laverty (lo sceneggiatore) e Rebecca O’Brien (la produttrice) Loach ha anche aggiunto i suo ringraziamenti al Festival di Cannes “per esistere”. “Questo festival è molto importante per la vita del cinema, perché questa arte resti forte”. E il cineasta nativo del Warwickshire non ha mancato di ringraziare, ovviamente “i lavoratori del festival, coloro che stanno dietro alle quinte, perché senza di loro non potrebbe esistere alcuna manifestazione”.
Il secondo premio come rilevanza, cioè il Gran Prix, se lo porta a casa (ancora una volta dopo Mommy del 2014) il giovanissimo canadese Xavier Dolan con il suo Juste la fin du monde, un sofisticato adattamento della piéce di Jean-Luc Lagarce. “Preferisco la follia della passione a un gesto di indifferenza” ha suggellato il 27enne cineasta assai commosso, da tempo considerato l’enfant prodige del cinema d’autore mondiale. Il suo film certamente è ambizioso ma è costruito su una tensione registica che provoca non poca irritazione. In ogni caso è piaciuto alla giuria guidata da George Miller e in particolare alla nostra Valeria Golino incaricata di consegnargli il riconoscimento.
Un importante ex aequo invece ha rappresentato il premio alla Miglior regia, andato al francese Olivier Assayas con il suo “depistante” e per questo bellissimo Personal Shopper e al romeno Cristian Mungiu per il tesissimo Bacalaureat: se il primo non aveva mai vinto a Cannes, il secondo si era già aggiudicato la Palma d’oro nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni e la miglior sceneggiatura nel 2012 con Oltre le colline. Questi due premi confermano il talento indiscusso di due autori tanto diversi quanto significativi per il cinema contemporaneo.
E ancora in Gran Bretagna è volato un altro premio di questa Cannes, ovvero il Prix du Jury per Andrea Arnold con il suo libero e spumeggiante road movie American Honey: la regista si era già attribuita due Prix du Jury, nel 2006 per Red Road e nel 2009 per Fish Tank. Con il premio a Loach e alla Arnold, il Regno Unito diventa il grande protagonista “geografico” del Palmares 2016.
Tra i grandi attesi del concorso c’era anche l’iraniano Asghar Farhadi, già Oscar e Orso d’oro per Una separazione nel 2011: ebbene il suo solido e The Salesman (in originale Forushande) non ha deluso i suoi sostenitori, conquistandosi ben due premi, quello alla miglior sceneggiatura e all’attore Shahab Hosseini. Sia l’interprete che il regista hanno dedicato il riconoscimento all’Iran. Nelle remote Filippine infine è andato il premio alla miglior attrice, quasi un fatto inedito e certamente contro ogni “glamour”. La brava Jaclyn Jose, protagonista di Ma’ Rosa di Brillante Mendoza (già miglior regista a Cannes nel 2009 per Kinatay) non è certo una modella, eppure nella sua corposa silhouette ha conquistato il tributo di tutta la platea.
Cannes 2016 si chiude dunque con un palmares composito, non banale e motivato che tuttavia ha escluso nomi e titoli non solo dati per vincenti dalla critica durante le giornate festivaliere, ma anche realmente meritevoli di una designazione di riguardo. Parliamo dei magnifici Paterson di Jim Jarmusch e Sieranevada di Cristi Puiu, come delle “sorprese”, ovvero il tedesco Toni Erdmann di Maren Ade e il brasiliano Aquarius di Kleber Filho Mendonça.
Brillante ed elegante è stata la cerimonia presentata dall’attore Laurent Lafitte, aperta con uno splendido montaggio di celebri frammenti della storia del cinema chiusi sulla scala dorata de Il disprezzo di Jean-Luc Godard, la cui porta si è aperta sul palco del Grand Théàtre Lumière. Emozionante anche la standing ovation alla Palma d’Honeur a Jean-Pierre Léaud, icona di film e autori leggendari del cinema francese con in testa François Truffaut.