A salire sul palco di questo blog sarà l’argomento regina degli esemplari di disabile: sua maestà l’accessibilità, meglio conosciuta come inaccessibilità. Sul trattare questo tema ero incerto e titubante, poiché risulta ovvio, quasi banale, che un esemplare di disabile si occupi di tale argomento, ma poi ho riflettuto attentamente: «È così importante non aderire alla campagna “mai banale”, quando c’è da sganasciarsi dalle risate?» Quindi fate come me, sedetevi e godetevi l’avventura. Il nostro tour di due sole date si concentrerà su Monza, per rispetto alla città che assiste alle mie gesta giornalistiche e perché non è che una goccia in questo oceano fatto di gradini, rampe e ascensori disattesi, percorsi ad ostacoli, indicazioni inattendibili…
Accendiamo i motori e via, ecco a voi lo storico capolavoro di inaccessibilità made in Monza: la stazione. Correva il 2007 quando Centostazioni (società che si occupa della riqualificazione e della gestione di cento stazioni) concluse i lavori di rifacimento di quella monzese, che prevedevano libero accesso ai carrozzati (nonché ai rivali passeggini). Ricordo che aspettai qualche settimana prima di visitarla, perché l’emozione era troppa. Un bel giorno, però, mi feci coraggio e mi recai nel misterioso luogo, dove – incredulo – vidi un ascensore; mi avvicinai e – poco stupito – scoprii che era da collaudare: ora sì che lo spirito italico tornava a palesarsi. Il collaudo fu talmente scrupoloso che durò anni, benché fosse inutile, così come l’ascensore: l’inconveniente era che portava al sottopassaggio (che collega i due ingressi della stazione), ma solo al sottopassaggio. Infatti, dall’altra parte dello stesso (all’altezza dell’accesso principale) l’ascensore mancava, mentre le pedane per raggiungere le banchine erano rigorosamente fuori uso (forse in attesa di un collaudo ancor più scrupoloso?).
L’unica soluzione era soggiornare nel sottopassaggio, e con un cappellino poggiato sulle gambe si sarebbe potuta anche arrotondare la cospicua pensione di invalidità. Alla luce di quanto appena scritto, do spazio alla mia fervida immaginazione e mi figuro un povero esemplare di disabile visionario che all’epoca intendeva muoversi autonomamente in treno – in questo caso il “povero” e “visionario” è del tutto pertinente. Una volta preso il famoso ascensore, avrebbe scoperto che dalla parte dell’ingresso principale (dove è possibile fare il biglietto) l’altro ascensore era desaparecido. Allora, dopo aver ingranato la retromarcia lungo il sottopassaggio, sarebbe stato costretto a fare il giro esterno alla stazione: ovvero un cavalcavia, il cui marciapiede ha tutte le carte in regola per litigare con una carrozzina. E finalmente eccolo davanti all’agognato ingresso alla conquista del biglietto.
L’impresa che il nostro eroe – ormai pronto a succedere a Ercole – sarebbe stato chiamato ora a compiere consisteva nel prendere il treno: avrebbe dovuto, quindi, misurarsi di nuovo sul comodo tragitto esterno per riprendere l’unico ascensore e, all’altezza del binario – con la bile pronta all’evasione -, scoprire che le pedane erano fuori uso. Ed è in quel preciso momento che avrebbe acquisito anche l’altro status di disabile, quello mentale. Come capita sovente alle fervide immaginazioni, anche la mia fa a pugni con la realtà: nessun esemplare di disabile assennato si fiderebbe dell’accessibilità delle stazioni italiane; per giunta, pochi ne sono a conoscenza, ma quando un sofferente carrozzato si sposta su rotaia deve annunciarlo giorni prima – come ogni capo di Stato che si rispetti – al Servizio di assistenza alle persone con disabilità, poiché godiamo di libertà condizionata. Vorrei solo incontrare quel giudice che ha stabilito codesta pena…
Correva il 2014 quando tornai a vivere l’emozione di cui sopra, ma quella volta ebbi la fortuna dalla mia: la stazione come per magia era accessibile, tanto da sembrare il paradiso degli ascensori. L’unica nota negativa era che tutte le attenzioni furono rivolte ai nemici ciechi, provocando in noi carrozzati non poche invidie. I nostri rivali, infatti, realizzarono il sogno di avere i loro percorsi tattili, con la sorpresa che uno di questi terminava contro un muro (chi l’ha ideato, un vero e proprio… burlone), mentre le simpatiche indicazioni in braille diedero quel non so che di geniale. Se un cieco intendeva andare in bagno, finiva diretto sulla banchina, magari sotto a un treno: perché, si sa, i nostri temerari nemici non “vedono” l’ora di esplorare l’ignoto…