Cultura

Palermo è liquida e polverosa. Così come il teatro siciliano

PALERMO – Palermo è carne di cavallo nera e dolciastra che stempia il palato, è milza che allappa la gola, è palme e intonaco morso e divelto dal tempo, è calcinacci e graffiti che spuntano come funghi dopo un acquazzone sulle Madonie, è erbacce che crescono indisturbate tra pietre secolari, è mare e montagne verdi tutt’attorno a scavarne una conca, a chiudere a semicerchio come un anfiteatro, è i mercati di colori che carezzano e aggrediscono, è questa lingua collosa e rugginosa che si appiccica addosso come caramello, è insicurezza del vivere giorno per giorno e matrimoni gonfi e tronfi di abiti attillati e tigrati, è calda e ventosa, è le mummie che stanno lì incredule a guardare la banalità dell’esistenza, è impigliata e imbrigliata, è formicaio brulicante, è vissuta e passato, è occhiali e cappelli e borse false, è le facce consumate dei figli di arabi, spagnoli e francesi mescolati con il mestolo della storia, impastati di sale in uno sfincione che sfarina compatto, in un arancino che gronda, in un cannolo che cola, è una melanzana scura e sanguigna di terra umida, è un pesce spada che guizza chiaro di riflessi accecanti, è pietre fresche mentre tutto intorno va a fuoco, è liquida e polverosa, statica ed elettrica, sfrigolante come crosta di pane saltata in padella, è il Trionfo della Morte e luce che addenta la testa, è il sovrappeso debordante di maglie aderenti, è madonne e pulle, è rosa e nero, femminino e oscuro, è preghiere ma anche quel “suca” scritto con orgoglio sui muri sbrecciati, sbeccati, sbattuti.

Siciliano era (è, perché le sue parole non sono morte) Nino Gennaro, fuggito da Corleone a Palermo, diverso tra omologati, omosessuale e antimafioso. Colto, intellettuale scomparso vent’anni fa e che l’attore Massimo Verdastro (che ha festeggiato i 40 anni di carriera) non ha mai dimenticato di portare in scena, di raccontarne la figura poliedrica, la mente di caleidoscopio pronta a riflettere luce e bellezza, gioia e voglia di vita. Folgoranti le sue massime, slogan da scolpire. Già il titolo, Non ho tempo di badare ai miei killer, se da una parte fa riferimento all’ultima parte della propria vita, battaglia persa contro l’Hiv, dall’altra è un inno alla non lamentazione, al sorriso, alla responsabilità che abbiamo verso noi stessi di tentare di essere soddisfatti: “O si è felici o si è complici”, un suo spot che ancor oggi fa rumore in quest’assuefazione alla mancanza di stimoli.

Verdastro, un fiume in piena, s’accende poderoso, è miccia e cannone pronto per lo scoppio, supportato da Giuseppe Sangiorgi (abile anche nel canto), dà voce e corpo alle varie anime (contenute anche nel volume da lui curato Teatro Madre, Editoria e Spettacolo) di Gennaro; turbinio, sconvolgimento, colori, calembour, il provocatorio contro il perbenismo ovattante e ammansente, che ci ricorda Peppino Impastato. Un flusso di coscienza tra poesie, che scriveva a mano e regalava, e solitudine, un vortice decadente antiborghese che trasuda linfa e voglia di vivere, ribellione affiancata da presa di consapevolezza. Una piece (fondamentale l’apporto di Giuseppe Cutino) che, alla fine, diviene mostra d’arte quando si accendono le luci e sul fondale sono appese le sue frasi e i ritagli di poesie, e il pubblico invade il palco per leggerle e appuntarsele.

Altro figlio di quest’isola di capperi salati e fichi d’india appuntiti è Stefano D’Arrigo, del quale Claudio Collovà ha messo in scena il suo memorabile “Horcynus Orca”, a quarant’anni dalla pubblicazione, un tomo denso di oltre mille pagine dal testo complesso. Qui il primo ostacolo vinto da Collovà; certo la lingua è aulica, infarcita di ricercatezze come di dialettismi, sgrammaticature e onomatopee, traslazioni e allitterazioni, di una prosopopea pomposa come di neologismi, una lingua stralunata e inventata a tratti gaddiana, giannibreresca, alta e terrena, anzi marina. Impossibile non scorgere in quest’Orca, una gigantesca appesa per la coda quasi in mussoliniana posa finale, i frammenti dell’esodo che si compie ogni giorno tra le due sponde del Mediterraneo. I video, veri e propri film avvolgenti, di Alessandra Pescetta ci portano in un immaginario sospeso e rarefatto di corpi galleggianti in questo liquido di alghe e fogli sparsi di preghiere, libri e fotografie sgualcite e graffiate a dondolare in questo mare nel quale non è per niente dolce naufragare.

L’oceano trabocca in onde a infrangersi nel suo moto perenne di risacca e rincorsa di schiuma e battigia, i colori pastello del fondale, la nebbia che forma un muro compatto e solido, una barca dove quest’Ulisse femmina e Circe allo stesso tempo (Manuela Mandracchia troneggia con sicurezza), quasi fosse una di quelle Madonne che se ne stanno sul fondo del mare in attesa di essere riesumate una volta l’anno per la festa patronale. Impossibile non sentire Melville in questa calata marittima che è già conturbante andamento di correnti in questo Stige che può riportare a casa come renderti cibo per pesci. Se la Mandracchia è essenza e spirito, corpo e materia ce la mette Vincenzo Pirrotta, voce profonda come la Fossa delle Marianne, mani a mulinare come remi a pagaiare, energia come vogatori di galee. Un testo complicato reso né semplice né lineare ma riportato, con gli scartamenti del sogno e dell’inconscio, a qualcosa che tutti ci accomuna: il mare amniotico, il viaggio, gli ostacoli per ritrovarsi.

Non ho tempo di badare ai miei killer, di Nino Gennaro, ideato e diretto da Massimo Verdastro e Giuseppe Cutino, prod. Teatro Biondo Palermo;

Horcynus Orca, da Stefano D’Arrigo, regia Claudio Collovà, prod. Teatro Biondo Palermo.