Di quel torneo indimenticabile Adriano Panatta si ricorda soprattutto il primo e l’ultimo punto: una volée in tuffo con cui annullò miracolosamente un match point al cecoslovacco Pavel Hutka al primo turno. “Ero quasi spacciato, avrebbe potuto finire tutto subito”. E un’altra volée, quella a rete dell’americano Harold Solomon, che gli consegnò il Roland Garros. “La palla che ha cambiato tutta la mia carriera, perché nel tennis i tornei bisogna vincerli: se non avessi conquistato quel trofeo sarei stato solo un buon giocatore, oggi nessuno si ricorderebbe di me”. Era il 1976 e Adriano Panatta vinceva l’Open di Francia, in una settimana magica in cui trionfò a distanza di pochi giorni a Roma e Parigi, battendo anche il grande Bjorn Borg nei quarti, in uno dei match passati alla storia del tennis. Purtroppo, quella è stata anche l’ultima volta che un azzurro è riuscito a vincere uno Slam. Da allora sono passati esattamente 40 anni, e l’Italia del tennis continua a vivere di ricordi. Specie quando arriva il Roland Garros, il torneo più caro agli italiani.
Panatta, perché l’Open di Francia è così speciale?
Perché ha una tradizione straordinaria, specie per noi europei e per noi italiani che nasciamo e cresciamo sulla terra rossa. Wimbledon è più elitario, molto britannico. Invece il Roland Garros è il torneo dell’Europa. Tutti vorrebbero vincerlo, ha un significato diverso dagli altri Major. Infatti ricordo che fino a qualche anno fa, quando incontravo Federer, si rammaricava sempre di non aver vinto a Parigi. Poi ce l’ha fatta. Ora tocca a Djokovic.
Come si vince il Roland Garros?
È lo Slam 3 set su 5 su terra battuta: faticoso, estenuante, il più duro al mondo. Non basta essere grandi giocatori, bisogna avere doti fisiche e mentali fuori dal comune. Si vince con la preparazione, molto più che altrove. Poi, ovvio, si vince giocando bene a tennis, oggi come allora: questo non cambierà mai.
Lei ce l’ha fatta. Ma da allora sono passati 40 anni e il tennis italiano se la passa piuttosto male…
Io non credo che la situazione sia così negativa: il movimento c’è, una base di buoni giocatori pure. Penso ai vari Fognini, Seppi, Bolelli. Poi è chiaro, non abbiamo il campione: ma quella è un’altra cosa.
Panatta lo era. Cosa manca ai nostri giocatori?
Un campione è formato da tanti elementi: ci vuole talento, determinazione, cattiveria agonistica, anche un pizzico di fortuna. Fognini, ad esempio, per me a livello tecnico è un top mondiale, almeno sulla terra. Però non ha la testa e la forza mentale per rimanere sempre al vertice. E questo fa la differenza tra vincere o meno le partite che contano.
Perché secondo lei da decenni non abbiamo un tennista da primi dieci del mondo?
Non penso ci siano colpe specifiche: il campione nasce, non si costruisce. Certo, quando arriva il talento giusto bisogna essere bravi a notarlo e a coltivarlo. Ma ormai i giocatori si scelgono gli allenatori fin da piccoli, decidono in autonomia il proprio percorso. Non credo che la Federazione svizzera abbia meriti particolari per i successi di Federer, o quella serba per Djokovic. Semmai, forse l’Italia ha sbagliato dal punto di vista filosofico…
Cioè?
Ecco, ai miei tempi si giocava più all’attacco, con più fantasia. Ai tennisti che sono venuti dopo di noi hanno insegnato a giocare in un’altra maniera. Forse sbagliando, perché gli italiani migliori, non solo quelli della mia generazione ma anche i vari Canè e Camporese, sono sempre stati giocatori estrosi. Invece si è voluto creare una scuola di faticatori, sul modello di quella spagnola, senza però avere le loro doti. Magari praticando un tennis diverso avremmo raccolto risultati migliori.
Per il momento dobbiamo accontentarci di fare da comparse. L’Italia riuscirà mai a rivincere il Roland Garros?
Bisogna chiederlo al Padre eterno, in breve tempo mi pare difficile: nel panorama attuale onestamente nessuno mi sembra in grado di lottare per uno Slam. E anche tra i giovani, da quello che vedo e che mi dicono, non ci sono fenomeni all’orizzonte.
Ma quando nascerà il nuovo Panatta?
Prima o poi arriverà, state tranquilli. Così almeno avrete qualcun altro da chiamare oltre me.