Appunti dal Florence Writers Publishing Day
Qualche giorno fa ho partecipato a un incontro rivolto a scrittori con l’ambizione di pubblicare il proprio libro in inglese e, quindi, di rivolgersi a un pubblico globale anzichè al ristretto mercato nazionale.
Nei locali della St Mark’s English Church, autori sconosciuti al grande pubblico hanno presentato i loro lavori ad alcuni rappresentanti dell’editoria internazionale. Martha Ashby di Harper Collins, agenti come Andrea Cirillo, Kimberley Cameron e autrici di best seller come Nuala O’Connor hanno dapprima offerto suggerimenti sul “come si fa” a proporre il proprio libro e poi, subito dopo, si sono messi a disposizione dei presenti con appuntamenti individuali.
Secondo Lori Hetherington, traduttrice e organizzatrice della giornata assieme a Mundy Walsh, direttrice artistica dell’Associazione Culturale di St. Mark: “Per partecipare a questo tipo di eventi è necessario recarsi a Londra o Dublino. Noi abbiamo voluto offrire questa opportunità anche alla comunità degli scrittori in Italia”. Nel nostro Paese solo al Women Fiction Festival di Matera è possibile qualcosa del genere (la prossima edizione si svolgerà dal 28 al 30 settembre 2017).
Cosa significa pubblicare un libro?
C’è stata una frase ripetuta da tutti gli esperti durante la giornata, una frase che continua a risuonarmi dentro: “Pubblicare un libro è come iniziare una nuova relazione. Bisogna farlo nel modo appropriato”. Ed è la stessa cosa se si propone il libro a un editore o a un agente o direttamente al lettore, come nel caso del self-publishing. È così che il format di Firenze è stato pensato e realizzato, per favorire gli incontri e per rispondere al bisogno forse più grande per chi scrive, di uscire dalla propria solitudine e di farlo sul terreno più pericoloso: quello della pubblicazione. Perché se scrivi significa che porti dentro te il sogno di condividere, a volte di esibire, una parte della tua esperienza, delle tua storie…
Dall’Italia al Mondo
È in questo clima di ascolto e di scambio che si è svolta la giornata e si sono affrontati tutti gli aspetti della produzione libraria odierna: dal mercato dei bestseller all’editoria indipendente e al self-publishing. Ognuno trattato con pari dignità. Tra i presenti c’era la variegata umanità degli autori. Dall’autrice, Libby Cataldi, con 25 mila copie vendute negli Stati Uniti che si è vista respingere dall’Ufficio Marketing della casa editrice perché i suoi sono numeri “troppo piccoli” per il mercato globale, anche se farebbero la felicità di qualsiasi casa editrice italiana.
A fianco di questi casi di “insuccesso” internazionale anche perfetti sconosciuti o autrici emancipate come Christine De Melo che, con le sue storie ambientate nella Firenze rinascimentale, vende qualche decina di migliaia di copie e, grazie al self-publishing, si è potuta licenziare e dedicare completamente alla scrittura.
Il successo globale di Elena Ferrante come opportunità
Durante la giornata ho anche scoperto che il successo di Elena Ferrante può essere un’opportunità per gli scrittori italiani. Infatti, una caratteristica comune a molti degli autori presenti, in larga parte stranieri residenti in Italia da anni, è che le loro storie parlano al mondo della bellezza italiana, del Rinascimento, del territorio, di noi e della nostra cultura. Sembra un trend emergente, che Lori Hetherington mi ha confermato: sull’onda dei successi di Elena Ferrante il mercato internazionale dei libri è più aperto ai nuovi autori italiani rispetto al recente passato.
Perché allora non alziamo lo sguardo e la smettiamo di lamentarci?
Se in Italia l’editoria indipendente è microscopica, questo non è più vero quando parliamo di editoria in inglese, di fatto la lingua franca del XXI secolo. E se uno scrittore vuole pubblicare oggi deve considerare la possibilità di farlo anche in questa lingua.
“Ma io non so l’inglese e scrivo in italiano! Come faccio a pubblicare in inglese?”
Non dico sia semplice, ma non è neppure impossibile. Tradurre la propria opera è difficile e pochi possono farlo autonomamente perché una traduzione di qualità effettuata da un madrelingua può essere molto costosa.Esiste, però, un modo semplice e alla portata se non di tutti, di moltissimi scrittori italiani. Certamente alla portata degli scrittori che pagano migliaia di euro per vedere il proprio libro stampato. Non sto parlando solo della vanity press ma anche di (quasi) tutti gli altri editori che obbligano gli autori ad acquistare qualche centinaio di copie del proprio libro a prezzo pieno perché così coprono i costi di stampa e di distribuzione.
Cosa accadrebbe se questi autori invece di buttare denaro in scatoloni di libri destinati alle proprie cantine investissero in una traduzione di qualità e in un piccolo piano di promozione (magari dopo aver partecipato alla prossima edizione del Florence Publishing Day)?
E chi non ha soldi?
Non tutti però hanno la possibilità di pagare la traduzione della propria opera. Ma le cose non si fanno solo con i soldi. Si può, per esempio, andare alla ricerca di nuovi amici. Ci sono molti scrittori in lingua inglese che amano l’Italia e vorrebbero essere tradotti in italiano, ma non possono o non vogliono investire in una traduzione con un madrelingua. Chi meglio di uno scrittore madrelingua italiano per tradurre uno scrittore straniero? Perché non pensare a uno scambio alla pari? È immaginabile una sharing economy delle traduzioni?
Saper creare nuove connessioni
Me ne sono tornato colmo di gratitudine per gli incontri e l’accoglienza ricevuta e con una convinzione: oggi, sempre più, la qualità sta nelle piccole cose, negli spazi dove non tutto è già prestabilito e dove quel che conta è la possibilità di creare nuove connessioni. Un saper fare che molti scrittori snobbano, illudendosi che oggi sia sufficiente saper scrivere per fare della scrittura un mestiere. Ma oltre a scrivere bisogna anche cercare e costruirsi nuove opportunità di qualità. Come hanno fatto i partecipanti del Florence Writers Publishing Day.