Si è trattato probabilmente di una delle contese più elettorali più incerte all’interno del continente europeo negli ultimi vent’anni. Per il suo ruolo centrale nella gestione del problema dei migranti, le elezioni presidenziali in Austria hanno catalizzato l’attenzione di politica e stampa internazionali come forse mai era successo prima d’ora, e la storia da raccontare potrebbe essere perfetta per una pellicola cinematografica hollywoodiana. Per questa volta l’abbiamo scampata bella, ma è arrivato il momento di affrontare con serietà i timori (per un pelo rimasti solo tali, nel caso di Vienna) che già da qualche anno dovrebbero preoccupare le classi politiche liberali e socialdemocratiche d’Europa: ci stiamo pericolosamente spostando verso destra, quella estrema, e il caso austriaco è solo l’ultimo esempio di una tendenza in atto non solo nell’Europa centrale.
Ricapitoliamo al volo i fatti: Alexander Van der Bellen, candidato indipendente ed ex capo dei Verdi in Austria, riesce a prevalere al fotofinish sul suo avversario ultranazionalista Norbert Hofer per poco più di 30mila preferenze. Dopo aver ottenuto un grande risultato al primo turno, staccando Van der Bellen di 15-16 punti percentuali, Hofer è arrivato al pomeriggio di domenica con quasi il 52% delle preferenze su tutti i seggi elettorali scrutinati. Mancavano solo i voti espressi per corrispondenza, cioè quelli dei residenti all’estero e di chi per vari motivi era impossibilitato ad andare a votare il giorno delle elezioni. Qui avviene il miracolo: vengono aperte le buste, Van der Bellen recupera e sorpassa Hofer, e nel pomeriggio di lunedì arrivano i risultati definitivi che vedono il candidato indipendente vincere su quello nazionalista con uno scarto dello 0.6%. L’Europa tira un sospiro di sollievo a pieni polmoni e si asciuga la fronte, ma è necessario porsi qualche domanda.
Quella del fronte anti-nazionalista è stata una vera e propria chiamata alle armi: Van der Bellen ha guadagnato 1.3 milioni di voti rispetto al primo turno, segno che il grande dato finale sull’affluenza (al voto il 72.7% degli aventi diritto) e la percentuale di preferenze ottenuta dal nuovo Presidente austriaco è il risultato di una mobilitazione generale di tutti coloro che si rifiutavano di vedere un uomo dell’estrema destra al potere. Socialdemocratici e conservatori hanno fatto blocco comune insieme a verdi e indipendenti per scongiurare la vittoria di Hofer, e ci sono riusciti per il rotto della cuffia. Ma la contesa tra forze democratiche cui siamo stati abituati sta cedendo il passo a una polarizzazione sempre più netta tra queste ultime e i populismi di destra che ormai guadagnano consensi in modo più trasversale di prima nelle società europee. Non è solo una questione di masse, di efficacia del messaggio politico o di problematiche che ci attaccano dall’esterno: Van der Bellen è pur sempre un indipendente, quindi socialdemocratici e conservatori hanno bisogno – ora più che mai – di cominciare una seria riflessione sul modo in cui hanno governato in Austria e in altre parti d’Europa negli ultimi anni, risultando fondamentalmente non in grado di fronteggiare adeguatamente le sfide interne ed esterne, di giustizia sociale e di politica internazionale, che gli si sono presentate davanti dal 2000 a oggi.
E l’Austria, come detto, non è un caso isolato: nel panorama europeo, mettendo per un momento da parte la storia già nota dell’Ungheria, in altri undici Paesi forze politiche di destra nazionaliste e populiste sono emerse (o stanno emergendo) con più o meno forza. In Bulgaria e Repubblica Ceca, e anche nelle quasi insospettabili Finlandia e Svezia, le destre sono passate dall’essere quasi completamente inesistenti o irrilevanti a lambire o superare la soglia del 10%; in Danimarca, Polonia e Francia la crescita è stata più netta e decisa, e nei tre Paesi le destre hanno percentuali pari o ben superiori al 20%; in Grecia e Germania abbiamo i casi Alba Dorata e Alternative für Deutschland, entrambi sotto il 10%, ma non meno preoccupanti se inseriti in nel contesto di generale slittamento dell’elettorato europeo verso destra.
Ben venga il fronte comune come contrasto ai nazionalismi, ma male se la polarizzazione tra populismi e forze democratiche diventa la normalità nelle contese di governo ed elettorali all’interno dei Paesi dell’Unione. I programmi si confondono, le scelte diventano sempre più “urgenti” e “necessarie” e il dibattito politico sui contenuti lascia il posto al decisionismo istituzionale. È un copione che abbiamo imparato a conoscere troppo bene per cascarci ogni volta come se fosse la prima. Cerchiamo delle risposte a Strasburgo e a Bruxelles, mettendo nella borsa le esperienze di Vienna, Atene, Varsavia, Budapest, Parigi. Se il problema è all’interno dei Paesi dell’Unione, è con l’unione che dobbiamo provare a risolverlo.