Quelli che partecipano ai festival e più in generale a certi eventi musicali, diciamocelo apertamente, sono per la maggior parte brutte persone. Gente odiosa, addirittura. Perché tu sei lì, che te ne stai a casa intrappolato a gestire la tua triste routine e loro, invece, si stanno divertendo in qualche posto affascinante e esotico. Non basta. Loro te lo fanno sapere in tempo reale, mannaggia ai social e a questa mania di fotografare tutto. Ti fanno sapere chi c’è sul palco, chi c’è tra il pubblico e anche chi c’è nel backstage. Postano foto, video e altre amenità. Poi, quando tornano, fanno pure quelli che si lamentano, tipo pubblicità della Costa Crociere, perché il divertimento è finito e loro, esattamente come a voi è capitato durante tutto il periodo di tempo del festival o dell’evento, adesso sono fermi nel loro luogo di residenza, povere anime. Anche se, ancora mannaggia ai social, è un attimo che ti esibiscono pure i biglietti per il prossimo evento, ovviamente imminente.
Succede per troppi festival ed eventi da citare. Ognuno di voi ha bene in mente di cosa stiamo parlando, che si tratti di Budapest, di Barcellona o dei dintorni di Londra. Le eccezioni ci sono, ad esempio il Burning Man Festival che si tiene nel deserto dell’Arizona e che è talmente carico di hype da fare categoria a sé: in pochi ci sono stati e tutti, ma proprio tutti tutti noi che non lo abbiamo fatto ci auguriamo che faccia ben presto la fine del Coachella, passato da luogo ultra-cool da esibire come i gradi appuntati sulla giacca a luogo talmente banale da essere quasi diventato volgare, buono per la prima Katy Perry o Paris Hilton di turno.
Insomma, da che esiste la rete, e da che i social hanno reso la nostra vita aggiornata riguardo la vita degli altri in tempo reale, non passa settimana, o al massimo mese, senza che non incappiamo in qualche frustrazione paragonabile solo a quella provata da chiunque fosse già in grado di votare e abbia mancato il famoso concerto dei Nirvana al Bloom di Mezzago, concerto che, stando a quel che si dice in giro sui social, deve comunque aver avuto un pubblico pari a qualche milione di spettatori, perché tranne noi c’erano praticamente tutti. Frustrazione dopo frustrazione, festival dopo festival, così procede la nostra vita di appassionati di musica immobilizzati a casa mentre là fuori scorre la vita e scorrono le note. Capirete quindi bene come, di fronte all’imminente arrivo sulle sponde dell’Idroscalo di Milano del Mi Ami Festival, un certo sollievo ci colga. Di più, una frenesia ed euforia di quelle che diventano addirittura difficili da gestire, al limite del bipolarismo, se paragonate alla cupa depressione che il non essere al Sonar o a Glastonbury ci ha provocato negli anni.
Perché noi, ovviamente, non c’è bisogno di dirlo, non saremo tra il pubblico che si presenterà sulle rive dell’Idroscalo di Milano per assistere al concerto di Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti o a quello di Cosmo, noi non abbiamo i baffi arrotolati all’insù come D’Artagnan, né siamo in possesso di t-shirt a righe orizzontali e dubito ci lascerebbero entrare. Non siamo tra il pubblico del Mi Ami Festival, ma sicuramente non proveremo quella vertigine di sconcerto nel vedere la selvaggia condivisione di foto e video dei partecipanti all’evento. Le previsioni del tempo dicono sarà bel tempo, è vero, ma non sarà certo la bellezza del sole che annega tra le acque dell’Idroscalo a farci struggere, specie al pensiero che nel mentre si sta esibendo Motta, coi suoi andati venti anni, o I Cani, con le loro pianole e la loro (sua, vai a capire) furia punkeggiante.
Avesse piovuto, lo sappiamo, avremmo visto foto di gente coi baffi arrotolati all’insù sporchi di fango, ma sempre del fango dell’Idroscalo, Segrate, staremmo parlando, mica di quello di Woodstock, anno del Signore 1969. Perché, diciamocelo, non è che tutti i festival siano uguali. Non è che lo Sziget, o il Primavera Sound, o, appunto, il citato e abusato Glastonbury siano esattamente la stessa cosa del Mi Ami Festival. Cioè, uno può darsi tutta l’allure del mondo. Può essere disincantato, parlare come fosse dentro una puntata di Silicon Valley, ostentare il proprio essere non di moda, dopo ore passate davanti allo specchio (provateci voi a farvi crescere la barba lunga senza farvela arricciare, se siete capaci), ma il Mi Ami resta sempre un festival fatto a metà strada tra la Mondadori, l’Ibm e i gonfiabili, giusto a un tiro di schioppo dal Luna Park di Novegro (no, tranquilli, non è quello della scena finale dei Guerreri della Notte di Walter Hill, è quello del video Sabato di Jovanotti, però). Non ci sono Anohni, James Blake, Jean-Michel Jarre o Fatboy Slim, come al Sonar, o Adele, Coldplay, Muse, Beck, Foals e altro mezzo mondo come a Glastonbury, niente Radiohead, Tame Impala, Sigur Ros o Pj Harvey come al Primavera Sound, e neanche Rihanna, David Guetta, The Last Shadow Puppets, Sia e Noel Gallager come allo Sziget Festival. No, niente di tutto questo.
Quindi, amici che accorrerete a ascoltare la bella musica che gira intorno al Mi Ami, vi imploriamo, non lesinate le vostre foto. Fateci sapere chi c’è, cosa sta facendo, chi è tra il pubblico e postate pure i vostri selfie coi protagonisti, selfie in cui, ovviamente e per dirla con Lo Stato Sociale, fingete tutti di non stare facendo un selfie. Noi, a casa, ne godremo profondamente, per una volta consci che è vero: novantanove volte su cento non siamo al posto giusto nel momento giusto, ma almeno una volta l’anno, invece, siamo esattamente dove dovremmo e vorremmo essere. Altrove.