di Velia Addonizio *
Negli ultimi mesi si è tornati a parlare del fenomeno del “caporalato” soltanto perché sono morti dei lavoratori, schiantati dalla fatica, sfruttati da questa pratica antica. Antica è aggettivo che edulcora il vergognoso dato di fatto che il lavoro umano, più che mai oggi, è considerato una merce, di cui un soggetto più forte può appropriarsi per venderlo, cederlo, lucrarci.
Quasi sempre alle luci dell’alba, estate e inverno, sulla piazza del paese o agli angoli delle rotonde delle periferie urbane, si ferma un furgone, scende il caporale e fa salire quegli uomini e quelle donne, che per quel giorno saranno i “fortunati prescelti” a guadagnare la giornata. Sembra la descrizione esagerata di una scena d’altre epoche, ma purtroppo non è così, come testimoniano le cronache giornalistiche.
Cera una volta la legge n.1369 del 1960 intitolata “divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di mano d’opera negli appalti di opere e servizi”, che nei tre commi dell’art.1, in complessive sette righe, descriveva con precisione i fenomeni del falso appalto, dell’intermediario che colloca lavoratori presso un’impresa o un’azienda, lucrandoci, e del datore di lavoro vero che si nasconde dietro un formale imprenditore, e ne vietava le pratiche. Le sanzioni previste erano sia ammende, sia penali, ma soprattutto era previsto che “i prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati, a tutti gli effetti , alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni”. La tutela contro il mercimonio dei lavoratori era totale: penale, amministrativa, ma anche lavoristica: infatti veniva assicurato che il rapporto di lavoro fosse riconosciuto in capo al reale datore di lavoro.
La legge 1369 del 1960 è stata abrogata dal decreto legislativo n. 276 del 2003, che continuava a sanzionare la somministrazione di lavoro irregolare e la somministrazione di lavoro fraudolenta. A seguito del Jobs act la somministrazione fraudolenta è stata abolita. Oggi il contrasto al fenomeno del caporalato è affidato sostanzialmente alla legislazione penale: nel 2011 sono stati introdotti nel codice penale gli art. 603 bis e 603 ter, che puniscono il delitto di intermediazione illecita con sfruttamento del lavoro, fattispecie collocata tra i delitti contro la persona.
Perché sia individuabile il delitto di intermediazione illecita con sfruttamento del lavoro occorre che coesistano un’attività organizzata e strutturata per la collocazione di manodopera e che il reclutamento dei lavoratori sia caratterizzato da sfruttamento esercitato con violenza, minaccia o intimidazione.
Perché si realizzi il reato occorre che sia accertato innanzitutto “lo sfruttamento del lavoro”, bisogna, cioè che risulti pagata una retribuzione palesemente inferiore ai valori stabiliti dai contratti collettivi nazionali, oppure vistosamente sproporzionata in relazione alla quantità e qualità di lavoro prestato. Contano, sempre al fine di misurare lo “sfruttamento”, le verifiche circa la fruizione da parte dei lavoratori di ferie, del riposo settimanale, dell’osservanza di un orario di lavoro entro i limiti legali, del rispetto delle norme sulla sicurezza nei posti di lavoro e, conseguente, della tutela della salute del lavoratore. Tutti questi indici di sfruttamento possono essere rilevanti ai fini penali solo se presentano il connotato della “sistematicità” (art. 603 bis, secondo comma): le violazioni devono essere ripetute e costanti nel tempo.
Per ultimo vengono prese in considerazione dalla norma penale le condizioni di lavoro e di alloggiamento particolarmente degradanti dei lavoratori.
Ma tutto ciò non basta ancora ad individuare il reato di intermediazione illecita con sfruttamento del lavoro. Una volta accertato lo sfruttamento da parte degli organi preposti (polizia giudiziaria in primis), devono sussistere altri due elementi: l’esercizio da parte dell’autore del reato di violenza, minaccia o intimidazione nei confronti dei lavoratori reclutati, nonché l’avvantaggiarsi dello stato di bisogno o dello stato di necessità dei lavoratori. Certo elementi estremi, ma necessari per disegnare una fattispecie di reato, punito con la reclusione da 5 a 8 anni.
Occorre considerare, però, che lo sfruttamento del lavoro descritto dalla norma penale si realizza molto frequentemente senza che coesista con violenza e minacce, ma non per questo non merita di essere contrastato, proprio con quelle forme di tutela che il diritto del lavoro prevedeva e che oggi sono state sostanzialmente abrogate.
La rigorosa e preziosa norma penale, sopra detta, non aiuta a smascherare tutte quelle forme subdole di elusione delle regole del rapporto di lavoro: finte cooperative, abuso del ricorso ai voucher, tanto per citarne alcune. Il dubbio è se sarà sufficiente la sola repressione penale per combattere un fenomeno così grave e, purtroppo, così diffuso; pratica, che in realtà interviene nelle fragilità di un mercato del lavoro del tutto inefficiente nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro e così propenso a retribuire il meno possibile il lavoro umano.
* Sono avvocato giuslavorista ed esercito a Milano, sempre pro lavoratori. Se potessi fare riferimento ad una citazione per presentarmi riporterei il brano di J.K. Ingram, economista e poeta nato in Irlanda nel 1823, che si intitola Address on work and the workman (1880): “La prospettiva in cui gli economisti… considerano abitualmente la posizione del lavoratore è molto limitata e quindi è falsa. Si parla di lavoro come se si trattasse di un’entità indipendente, che si può scindere dalla persona del lavoratore. Esso viene trattato come una merce, come grano o cotone, mentre la componente umana, i bisogni umani, la natura umana ed i sentimenti umani vengono quasi completamente ignorati.