Non è solo la bellezza caraibica del nome, Fatto Social Club, che rimanda a suggestioni immortali e rivoluzionarie. C’è che questo logo rinforza un sentimento che non provavo da anni. E cioè il senso di appartenenza a una comunità. Per chi come me rimpiange il secolo delle ideologie e dei partiti, ed è convinto che destra e sinistra abbiano ancora un significato e un futuro, far parte di una comunità è una sorta di soffio vitale, il classico élan vital, che tiene insieme le varie fasi della vita, dalla politica al lavoro, dalla riflessione all’impegno civico di cittadini (che vuol dire rispettare le leggi, innanzitutto). Ecco, il Fsc per me è innanzitutto questo: avere di nuovo un tetto sulla testa e avere un sentire comune con chi ne fa parte. Una comunità unica nel suo genere, in cui convivono tutte le opinioni politiche in un momento di grande depressione del nostro paese. E il tratto distintivo di tutti noi è la libertà, che comporta anche responsabilità.
Nella mia parabola professionale ho avuto la fortuna di cimentarmi in molti servizi di un quotidiano (politica, giudiziaria, economia, cultura, sport) e, confrontandomi con i miei amici colleghi di altre testate, c’è una cosa che mi ha sempre colpito: il limite all’informazione e alle notizie imposto dalle convenienze del direttore o dell’editore. Al Fatto, invece, siamo padroni di noi stessi. E non è retorica, semmai una garanzia di valore inestimabile per chi scrive e per chi legge. Dove trovate, in Italia, un giornale in cui per il 25 aprile scrivono l’antifascista Furio Colombo e il revisionista Massimo Fini? Passiamo per grillini e giustizialisti e sorrido. Al contrario, le donne e gli uomini del Fatto mi ricordano un Comitato di liberazione nazionale in cui sono rappresentati tutti i colori. Il discrimine vero è un altro e riguarda l’approccio al problema più antico del mondo, messo a fuoco da Kant: l’umanità come legno storto.
E, visto che non siamo sacerdoti che devono perdonare e assolvere, altrimenti avremmo fondato una chiesa o il convento, al Fatto documentiamo, analizziamo e critichiamo tutte le degenerazioni del legno storto incarnato dall’uomo pubblico, in un paese incline, per pigrizia e storia, al mito dell’uomo forte (Mussolini, Craxi, Berlusconi, adesso Renzi). Talvolta mi rendo conto e lo ammetto, è anche un problema morale o antropologico. Per il Fatto ho raccontato e racconto mondi che ci considerano nemici: berlusconiani, alfaniani, verdiniani, spesso renziani (che sono altra cosa dalla sinistra, sia chiaro). Con molti di loro ho una consuetudine ormai da anni e ogni volta la discussione si arena a causa dei punti di partenza. Per spiegarmi meglio faccio un esempio, riportando la trascrizione più o meno integrale di una mia telefonata dell’altro giorno con un noto esponente di Ala. Lui: “Fabrizio, ma a volte non ti viene il dubbio che qualche magistrato abbia sbagliato o abbia fatto una cosa per calcolo politico?”. Io: “I dubbi, al plurale, te li concedo, ma è la prospettiva che è diversa per me. Tu parti dando per scontata l’aggressione giudiziaria alla politica innocente. Io, al contrario, mi chiedo perché si continua a rubare e perché la corruzione è diventata il dato strutturale dell’astensionismo punitivo in Italia”.
Una questione di prospettiva, appunto. E che in Italia purtroppo sta diventando sempre più patrimonio di pochi. Ai tempi di Tangentopoli, il Pci fu tutto sommato il partito della questione morale. Un quarto di secolo dopo, invece, il Pd sembra la nuova Dc. Ed è per questo che, grazie al Fatto, non sono un randagio senza un tetto sulla testa. Per me il Fatto è un giornale-bandiera, segno di riconoscimento in mezzo alla folla conformista. Sono cresciuto, al liceo, con il Manifesto in tasca, folgorato da quel titolo di Luigi Pintor sul regime di quei tempi: “Non moriremo democristiani”. I miei direttori al Fatto, Padellaro, Travaglio e Gomez, sono stati protagonisti di una stagione per non morire berlusconiani. Adesso ci apprestiamo a non morire renziani. Tutto è grazia, come diceva il povero curato di campagna.