“Per musica contemporanea si intende quello spicchio di musica che ha completamente svilito la grandiosità del sentimento. Sono cose che può fare anche un gatto. Se tu lo metti su un pianoforte, non dici che è un gatto e lo registri, quelli a cui piace questa musica dicono pure che è bella”. Così dichiarava Franco Battiato in luogo della conferenza stampa del Meeting del Mare 2014. Battiato non è l’unico a lanciarsi in simili affermazioni su un tipo di musica che, come ricorda Jean-Jaques Nattiez in un suo recentissimo contributo, si riconosceva pienamente nel “gioco delle strutture (…) considerato come più importante rispetto alla dimensione espressiva ed emotiva della quale ci si sforzava persino di negare l’esistenza (…) il piacere che si poteva provare nell’ascoltare musica era oggetto di scherno e l’edonismo era considerato una categoria sospetta”.
Si assiste oggi al ritorno, seppur ancora pressoché timido, di una musica più vicina alle istanze di una maggiore comunicazione col pubblico (pensiamo, ad esempio, a Le Braci di Marco Tutino o, perché no, a Lo specchio magico di Fabio Vacchi). Quello stesso pubblico spesso additato dalle élite intellettuali come incapace o senza una precisa volontà di relazionarsi con le “grandi opere” della contemporaneità (un po’ come, fra le righe, dichiarava Luigi Nono tanti anni or sono quando invitava lo scettico, critico pubblico di una sua opera diretta da Abbado a pensare con la propria testa, scaricando le proprie responsabilità su un problema di “organizzazione culturale”), una contemporaneità che per nostra fortuna non ha un unico volto ma una moltitudine di approcci e sentimenti differenti.
Arvo Pärt, tra vari altri, ne è un vivo testimone. I tempi cambiano, e ne sono testimoni le dichiarazioni dei diretti eredi delle neo-avanguardie musicali, musicisti come Fabio Vacchi che, senza mezzi termini, si denunciano refrattari “all’algida e mortifera concettualizzazione esaltata messianicamente dal radicalismo modernista (oggi ancora aggressivo benché agonizzante)”. Esponente di spicco della musica d’arte italiana, Vacchi si dice “consapevole debitore alle sperimentazioni delle avanguardie di cui la mia scrittura é figlia, ma intollerante ai loro cascami dottrinari e pedanti, e ancor più alla loro saccente produzione di brutture mascherate da pretese filosofiche non di rado banali”. Brutture mascherate da pretese filosofiche, una definizione che ci si sente di poter sottoscrivere, senza se e senza ma, in luogo di una fitta rete di evidenze incontrovertibili.
Come mai qualsiasi teatro o auditorium voglia proporre una qualsiasi opera contemporanea lo fa inserendola al principio o in mezzo, ma mai alla fine, di un programma che, accanto all’autore contemporaneo di turno, annovera i più comprensibili autori del grande passato musicale europeo? Alessandro Baricco, in un articolo comparso su Repubblica nel 2011, auspicava programmi di sala di sola musica contemporanea, ritenendo assurdo affiancare Boulez a Bach e Schubert in luogo di una stessa serata: un po’, sosteneva lui, come affiancare Pollock alla Gioconda. Nel caso però “delle brutture mascherate da pretese filosofiche” è difficile un programma di sala presenti esclusivamente opere di cosiddetta musica contemporanea, salvo condannarsi a una giusta, totale assenza di pubblico.
Come mai nessuno fra i grandi autori della musica di ricerca riesce, post mortem, a trovare uno spazio esecutivo che sia anche solo lontanamente congruo a quando era in vita? Dove sono i Berio, i Nono, i Maderna, gli Sclesi? Dal momento in cui questi, come molti altri autori, vengono a mancare, automaticamente viene a mancare anche una qualsiasi prassi esecutiva delle loro opere. Come mai, nonostante siano passati più di cento anni dalle prime avvisaglie dodecafoniche e atonali, quelle opere che, a cadenza regolare, ci hanno detto sarebbero state comprese, proprio in quanto avanguardiste, dopo tanto, tantissimo tempo (ricordo anche Antonio Pappano, qualche anno fa presso l’Aula Magna dell’Università La Sapienza, asserire lo stesso), ancora non lo sono affatto?
Esiste un celebre luogo comune propinato per più di un secolo dai fautori del modernismo musicale, una specie di asserzione più o meno esplicita, più o meno palesata: i grandi musicisti, i musicisti impegnati, sono quelli che non piacciono alle grandi masse (e ci ricolleghiamo qui al summenzionato discorso di Nattiez). Così, con questa specie di distorsione percettiva, i modernisti, i contemporanei, hanno voluto spiegare tutto il clamoroso rigetto del pubblico verso produzioni di assoluta autoreferenzialità. Il musicista, prima che contemporaneo, autoreferenziale, di fatto si pone dinanzi al pubblico come farebbe un attore che, salito sul palcoscenico, iniziasse a esprimersi in un linguaggio sconosciuto a chicchessia, una lingua inventata ex-novo e da lui solo padroneggiata, senza il minimo supporto di una gestualità o toni specifici atti in qualche modo a compensare l’enorme vuoto creato dall’assenza di un codice linguistico condiviso. Per non essere superati e fagocitati dalla storia, è giunto oggi il tempo dell’autocritica.