C’è una donna – con i capelli sul rosso, ben a posto – che in prima fila non stacca mai lo sguardo dal pianista. Non si spaventa neanche quando dal pianoforte sente arrivare gli scossoni di una canzone dei Dire Straits. La sua attenzione totale, dedicata, si interrompe solo qualche secondo, quando un’infermiera le si avvicina all’orecchio. Lei scuote la testa. “Ha bisogno di qualcosa?”, “No, grazie, è tutto a posto”. In realtà nessuno sente cosa si dicono. Quando l’anziana si volta per un istante, non può nascondere il piccolo tubo che i medici le hanno messo al naso e che forse lei maledice ogni giorno: quei cosi disturbano la vista, poi non ci si può grattare, non ci si può girare bene nel letto. Come se poi fosse quello il problema.
Mentre sta per finire il Valzer di Amélie, un’altra spettatrice in prima fila si asciuga una lacrima, con un dito sotto gli occhiali scuri. Si guarda intorno, forse per timore che qualcuno abbia notato quel momento di debolezza. Un’altra anziana, poco più indietro, con un fazzoletto in testa, segue un brano di Morricone chiudendo con gli occhi, assapora la musica di un vecchio film. Un signore, invece, riceve baci e tributi dai parenti, giovani e meno giovani, puntuali e meno puntuali: siamo qui. Lui ogni tanto si volta e li guarda, tutti seduti insieme, da una parte. Come sono diventati grandi, e belli poi, penserà dalla sua sedia a rotelle, sono qui per me. E poi ricomincia ad ascoltare, con cura, concentrazione: quasi come se non si potesse permettere di perdere una sola nota.
Non potrà prendersela Michael Nyman, la star che ha fatto il pienone nel parco della Gam. Il più grande successo della quinta edizione di Piano City a Milano (400 concerti, 50 ore di musica, spettacoli ininterrotti, anche all’alba, palchi in tutta la città) è stato dentro un ex ospedale psichiatrico in periferia, il Paolo Pini. Cioè il concerto dentro un hospice: si chiama Il Tulipano, ha 15 camere e ospita chi si avvia all’ultimo pezzo di strada in questo mondo. Passano da qui oltre 250 pazienti ogni anno. Al Tulipano la musica entra spesso: è una delle medicine che si usa più volentieri negli hospice di tutta Italia, che sono un po’ meno di 300. Qui, in più, c’è Ciko, un meticcione nero.
La musica in ospedale: non una cosa nuova, ma una cosa bella, che si trova qua e là in Italia. La differenza è che questa volta il concerto è nel programma del festivalone del piano. Così i pazienti si voltano e non trovano solo parenti, medici e infermieri, come al solito, ma un centinaio di persone a battere le mani insieme a loro, in quel giardino a volte un po’ vuoto, un po’ silenzioso. Oggi invece pare di essere a teatro. Applausi e solo posti in piedi. La ragazza che ha scelto i tacchi alti, i coniugi di mezza età arrivati in bicicletta, la trentenne che ha trascinato il fidanzato, annoiatissimo e fisso sul cellulare, quello che a fine concerto chiede al pianista consigli per migliorare la propria tecnica. Un bambino che in fondo al parchetto parla a alta voce e schiaccia le foglie buttate giù dal vento e fa trillare il campanello della sua bici, sscchh, gli fa il papà, e lui dà un altro colpetto.
Il palco non c’è nemmeno e chi se ne frega: il pianista Antonio Branca dice che non ha mai smesso di studiare come si fa a suonare, perché è con il pianoforte che è riuscito a dare un senso alla vita, che poi è un po’ la stessa cosa che succede ai medici e agli infermieri o a chi scrive, chi va in barca a vela, chi cammina sui monti. A Branca – che parte da Bach arriva ai Pink Floyd passando per Liszt e lo swing – basta una buona cassa stereo per superare il canto degli uccellini che intorno cercano di competere.
Ogni nota come se fosse l’ultima, come se fosse solo la prima. Come se ogni tasto fosse un punto a favore, un battito in più, anche ora che tutto sta per compiersi, ora che resta solo l’attesa per il momento che nessuno pronuncia, di cui tutti sanno il nome ma che nessuno conosce. Cosa c’è di più difficile di riempire, tradurre, dare valore al tempo che manca alla fine di tutto? Cosa può battere la paura, il dolore, la tristezza nell’attesa del grande mistero? Quale parola dolce, quale giornata di sole, quale mazzo di fiori può sconfiggere la disperazione di una storia che sembra non avere più senso? La signora con il fazzoletto sente una specie di blues, batte il piede, balla con la testa. Finisce tutto e il fidanzato annoiato molla finalmente il cellulare. I coniugi inforcano di nuovo le bici e si gettano nel sole. Il bambino trilla il campanello senza che nessuno lo riprenda. La signora con il fazzoletto riapre gli occhi: sono grandi, chiari, forse azzurri. Ora sembra che abbiano voglia di mangiare il mondo.