Il fine è “chiaro e condivisibile”: tutelare sindaci e amministratori locali da intimidazioni e atti ritorsivi. I dubbi, semmai, riguardano la forma. Perché “la tecnica legislativa”, spiega l’avvocato Caterina Malavenda, esperta di diritto dell’informazione, “manca di un elemento essenziale”. La questione riguarda una norma contenuta nel ddl a prima firma Doris Lo Moro (Pd) licenziata dalla commissione Giustizia del Senato e ora all’esame dell’Aula di Palazzo Madama. Una norma che introduce un’aggravante (da un terzo alla metà della pena) per alcuni reati, tra i quali la diffamazione, se il fatto è commesso ai danni di un componente di un corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio. Ma “non specifica, se non nel titolo del tutto ininfluente, che l’aumento di pena si applica solo se questi reati sono stati commessi per ritorsione nei confronti delle vittime”, prosegue la Malavenda. Novità che è stata pesantemente criticata da parlamentari di destra e sinistra, come Carlo Giovanardi, Tito Di Maggio e Gaetano Quagliariello, per non parlare degli esponenti del M5s che hanno già preannunciato emendamenti soppressivi. Tanto che lo stesso Pd sta facendo marcia indietro.
Avvocato, su questa norma sono insorti l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa, senza contare le polemiche innescate in sede parlamentare con tanto di retromarce annunciate. Ritiene giustificati gli allarmi da più parti lanciati?
Parzialmente e soprattutto per la forma adottata. Stiamo parlando, infatti, di una norma inserita in un ddl che persegue un fine chiaro e condivisibile, ossia il contrasto al fenomeno delle intimidazioni ai danni degli amministratori locali. Ma la tecnica legislativa, cioè il tenore dell’articolo, manca di un elemento essenziale, che ha generato il dibattito di queste ore.
E qual è questo elemento?
L’articolo 3 del ddl, che introduce l’aggravante se alcuni reati, fra cui la diffamazione, sono commessi ai danni di un componente di un corpo politico, amministrativo o giudiziario, non specifica, se non nel titolo del tutto ininfluente, che l’aumento di pena si applica solo se questi reati sono stati commessi per ritorsione nei confronti delle vittime.
E qual è la conseguenza di questa lacuna?
Che così com’è scritta la norma sembra punire con sanzioni più pesanti le diffamazioni commesse nei confronti degli amministratori locali e non solo, per ragioni connesse all’adempimento del loro mandato, funzioni o servizio. Faccio un esempio. A me non piace quello che sta facendo un sindaco e, criticandone l’operato, con il quale adempie al suo mandato, lo diffamo: mi vedrò contestare l’aggravante, a prescindere dalla natura ritorsiva della mia condotta, stante la genericità della norma sul punto. In altre parole, occorre dire esplicitamente che la diffamazione è aggravata se è stata commessa con un fine specifico, che non è la semplice lesione della reputazione, ma la lesione della reputazione con finalità ritorsive. E questa specificazione, a mio avviso, nella norma manca.
Poi c’è la questione dell’aggravio della pena prevista dalla norma. Cosa succede applicandola al reato di diffamazione?
Rischia di non avere nessun effetto concreto, quantomeno nelle ipotesi di diffamazione a mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto determinato alla vittima. In questo caso, infatti, la diffamazione è già punita con un’aggravante ad effetto speciale che la sanziona con la reclusione da 1 a 6 anni. Anche l’aggravante, introdotta dal ddl licenziato dalla commissione Giustizia del Senato è, a sua volta, però, un’aggravante ad effetto speciale, perché eleva la pena da un terzo alla metà. Il codice penale stabilisce che le aggravanti speciali non si possono sommare, ma si applica solamente quella più grave, in questo caso quella già vigente, con la mera facoltà, riconosciuta al giudice, di aumentarla in misura sempre non superiore ad un terzo.
Riassumendo?
Considerando che la pena massima per la diffamazione a mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto determinato è di 6 anni, potrebbe salire fino ad un massimo di 8 anni, ma solo se il giudice dovesse, a sua discrezione, ritenere di applicare anche il possibile aumento di pena, previsto dal ddl in esame al Senato. Ma si tratta, vorrei sottolinearlo, di un’ipotesi di scuola, visto che, per fortuna, in attesa che il Parlamento intervenga, la pena detentiva è assai rara e mai comminata nel massimo.
E cosa cambierebbe, in termini di computo della pena massima, rispetto alla normativa vigente?
Sempre in via d’ipotesi praticamente nulla, per la diffamazione a mezzo stampa, già punita, in assenza di fini intimidatori, con la reclusione da 1 a 6 anni. Ciò perché l’ultimo comma dell’articolo 595 del codice penale prevede già un’aggravante semplice, se l’offesa è arrecata a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad una sua rappresentanza, aggravante per effetto della quale la pena può già oggi essere aumentata e non a discrezione del giudice, fino ad un terzo. Quindi già oggi la pena ipotetica può arrivare fino ad un massimo di 8 anni.
Però la nuova aggravante si riferisce al singolo componente e non all’intero corpo politico, amministrativo o giudiziari
La norma vigente parla di Corpo o di sua rappresentanza. E, secondo la giurisprudenza, l’offesa al singolo, offendendo l’organo cui appartiene, è aggravata. Quindi già oggi l’aggravante viene contestata quando ad essere diffamato sia un sindaco, il singolo parlamentare, un magistrato o un prefetto. La singolarità rimane l’ampliamento della nuova aggravante, indotta dalla tutela del singolo amministratore locale, a tutti gli appartenenti al potere esecutivo, legislativo e giudiziario. E’ stato questo, credo, ad indurre qualcuno a parlare di norma a favore della “casta”.
Quali saranno gli effetti di questa norma sul lavoro dei cronisti?
Oggi, se un giornalista scrive un articolo con cui lede la reputazione, ad esempio, di un sindaco incorre nel reato di diffamazione semplice o aggravata secondo il codice penale, quale che sia il fine che si propone. Con la nuova norma, secondo le intenzioni, se il giornalista agisse su input di un mandante o per fatto personale ritorsivo, dovrebbe scattare la nuova aggravante. Ma poiché, come ho detto, questa norma non fa alcun riferimento a questo fine, l’aggravante prevista potrebbe trovare applicazione, a prescindere dalla natura ritorsiva della condotta, in ragione della qualità della vittima.
E rispetto alla legge di riforma della diffamazione all’esame del Parlamento che, in prima lettura, ha eliminato il carcere per i giornalisti?
La scelta di inserire la diffamazione fra i reati la cui pena verrà inasprita, sembra collidere con la funzione deterrente, attribuita alla nuova norma, visto che il ddl, già approvato da uno dei due rami del Parlamento, ha eliminato per questo reato la pena detentiva. Allo stato, l’aggravante andrebbe ad incidere comunque su una possibile pena detentiva, addirittura obbligatoria, in caso di diffamazione a mezzo stampa, aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato. Se il ddl dovesse essere approvato, invece, l’aggravio sarebbe solo economico, quindi del tutto irrisorio, specie ove la ritorsione abbia ad oggetto lavori o affari importanti. L’estensione alla diffamazione, dunque, se rapportata alla scelta fatta, mi pare illogica. A meno che il legislatore non abbia avuto un ripensamento e abbia deciso di abbandonare l’idea di abolire la pena detentiva per il reato di diffamazione. Ma questa è un’altra storia…
Twitter: @Antonio_Pitoni