Le coop di consumo che raccolgono anche finanziamenti dai soci e non garantiscono il rimborso se qualcosa va storto. Quelle che offrono assistenza sanitaria pagando meno tasse di una clinica “normale”. Il neocapitalismo delle grandi multiutility emiliane che gestiscono rifiuti e servizi energetici e le “sette sorelle del mattone” finite in liquidazione o in concordato lasciando a casa i dipendenti. Le piccole cooperative di facchinaggio, logistica, pulizie o preparazione di alimenti che lavorano in subappalto e pagano 3 euro l’ora, in gran parte “al nero”, senza rischiare quasi nulla perché uno dei decreti attuativi del Jobs Act ha abrogato il reato di somministrazione fraudolenta di manodopera. Sullo sfondo UnipolSai, uno dei maggiori gruppi assicurativi italiani, quotato in Borsa ma controllato dalle coop attraverso la finanziaria Finsoe. Vale quasi l’8% del pil italiano l’universo economico delle cooperative italiane di cui Antonio Amorosi, in Coop connection (editore Chiarelettere), racconta i lati oscuri. Il sottotitolo – “Nessuno tocchi il sistema. I tentacoli avvelenati di un’economia parallela” – dice già molto.
Un universo da 12 milioni di soci e 1,1 milioni di occupati – Dalla cupola degli appalti Expo al Mose, da Mafia Capitale allo scandalo dei lavori per la metanizzazione dell’Agro aversano che ha travolto Cpl Concordia, i casi di coop coinvolti in episodi di corruzione e rapporti con la criminalità organizzata sono cronaca nota. Ma anche dove non arrivano le indagini giudiziarie, secondo Amorosi, ci sono contraddizioni e guasti che vanno messi in luce. Soprattutto perché quello delle coop è, senza esagerazioni, un impero economico. A cui fanno capo il 34 per cento della distribuzione e del consumo al dettaglio italiani, il 13,4 per cento degli sportelli bancari, una produzione agroalimentare che vale 35 miliardi di euro, ramificazioni nell’immobiliare, nelle utilities e nei servizi sociali. “Un italiano su cinque è socio di una cooperativa e uno su tre acquista nelle cooperative”, annota Amorosi.
La sola Legacoop – le “coop rosse”, presiedute fino al 2014 dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti – riunisce 15mila cooperative per 79 miliardi di fatturato, 8,9 milioni di soci e 493mila dipendenti. Segue Confocooperative, la centrale delle coop bianche di matrice cattolica, con 21mila imprese, 65,1 miliardi di fatturato e 543mila occupati. Chiude il podio l’Agci, che conta 7mila coop, 7 miliardi di fatturato e 71mila occupati. L’Alleanza delle cooperative, coordinamento delle tre centrali, assomma 12 milioni di soci e 1,1 milioni di occupati. Un universo che però può contare su un trattamento fiscale di favore: “Le coop, a differenza degli altri tipi di società o dei singoli contribuenti, pagano tasse su una parte molto minore dell’utile”, “il 65 per cento per le coop di consumo, il 40 per le coop di lavoro, il 20 per quelle agricole. Zero per le coop sociali”. E gli utili “finiscono in immobili, vendita farmaci, telefonia mobile, agenzie viaggi, librerie, aziende controllate come i punti fai da te Brico, le 268 agenzie di viaggi Robintur controllata al 69,75 per cento da Coop Adriatica, le Librerie Coop di cui sempre Coop Adriatica detiene il 42,86%, i media tv come le emiliane Teleregio e Trc (TeleRadioCittà), la catena di cibo Eataly, i carburanti come Enercoop, luce e gas di Ècoop o finanziarie quali Simgest. O servono a ingrassare Unipol, l’assicurazione delle coop rosse”.
L’ex dirigente: “E’ sistema perfetto: i soldi passano attraverso le fondazioni, non c’è reato” – Il libro-inchiesta si apre con la testimonianza di un ex dirigente del mondo coop, emiliano, che ha lavorato sia nella grande distribuzione sia “ai vertici di Unipol”. E descrive l’evoluzione del sistema da quando “non c’era bisogno di pagare le tangenti” perché “era tutto centralizzato” e “qualsiasi impresa che voleva vincere un appalto per una grande commessa di Stato doveva pagare la politica che stava nei consigli di amministrazione” a oggi. Negli anni Ottanta “un 5 per cento del costo dell’opera era destinato alle mazzette”, ma “poteva lievitare anche fino al 15”. Poi, “dopo la caduta dei regimi comunisti dei paesi dell’Est”, “le cose si sono rovesciate”: “Oggi siamo noi delle coop che meniamo le danze e decidiamo chi fa carriera nel partito“. E i soldi passano attraverso le fondazioni: “Il grosso del denaro gira solo tra privati (…) Non c’è reato tra privati. Per esserci deve essere provato l’interesse, l’appropriazione di qualcosa e che c’è corruzione”. Un sistema “senza tracce, perfettamente legale e che nessuno può inchiodare perché è perfetto”. E che “garantisce di vincere e portare a casa il lavoro. Da dividere poi tra le nostre imprese. C’è chi costruisce. Chi si occupa delle forniture, chi del movimento terra (…). L’energia, l’acqua, la luce, le pulizie, ce ne sono di cose da fare!”.
“Più soldi dalla finanza che dalla vendita di merci” – La prima delle “cose da fare”, storicamente, è stata vendere ai consumatori beni alimentari. A oggi le coop di consumo di Legacoop sono il primo gruppo della grande distribuzione organizzata italiana. Ma dai conti di Unicoop Firenze, Coop Adriatica, Coop Estense, Unicoop Tirreno e le altre sette big emerge che “in un anno dalla vendita delle merci esposte sugli scaffali ricavano 47,1 milioni, dalla finanza invece 210“. Sono insomma i proventi che arrivano dalle attività finanziarie a tener in piedi i bilanci. E qui si innesta il capitolo sul prestito sociale, cioè la raccolta di risparmio tra i soci, consentita fino a un ammontare pari al triplo del patrimonio. “Se dal 2009 al 2013 le coop di consumo guadagnano tre volte tanto dalla finanza rispetto alla vendita delle merci, da dove prendono i soldi per le loro attività in Borsa? Sono i 10,8 miliardi del prestito sociale dei soci a giocare un ruolo fondamentale”. Peccato che “in caso di insolvenza il socio perde tutti i soldi”. Così, per esempio, i prestatori delle Cooperative Operaie di Trieste, finite in concordato, rivedranno solo una percentuale dei loro risparmi. Stesso discorso per quelli della carnica Coopca.
Controlli fai da te e crac miliardari – Altro nodo irrisolto è quello dei controlli: le cooperative che aderiscono a Legacoop, Agci, Unci, Unicoop e UeCoop sono vigilate dalle centrali stesse. “In pratica si controllano da sole”. Se non aderiscono alle centrali, sono controllate dal ministero dello Sviluppo economico. Che però, con gli ultimi tagli, non ha più le risorse per fare le ispezioni. E la trasparenza sui bilanci? “Solo dal 2004 le coop hanno l’obbligo” di depositarli. Quanto alle revisioni, che devono attestarne la correttezza, la stragrande maggioranza delle coop si affida alla controllata di Unipol Uniaudit, di cui il gruppo assicurativo ha il 35%. Quando poi una cooperativa fallisce, come accaduto alla Nuova editoriale scarl attraverso cui secondo i pm di Firenze Denis Verdini riceveva finanziamenti ufficialmente destinati al suo Giornale della Toscana, “il Mise nomina un curatore fallimentare che è solitamente un aderente alla centrale di riferimento, Legacoop o Confcooperative, così la procedura di liquidazione si gestisce in famiglia, senza mettere documenti nelle mani dei magistrati”. Tanto peggio per i debitori. Caso esemplare quello della Coop-costruttori di Argenta, fallita nel 2003 con un crac da 1 miliardo di euro: il terzo della storia italiana dopo Parmalat e Cirio. “Diecimila creditori. Duemilacinquecento dipendenti finiti senza un soldo. Spariti nel nulla 80 milioni di prestito sociale e fatture inevase per 137 milioni”. Il fondatore e per 43 anni presidente Giovanni Donigaglia, già finito in manette durante Mani pulite, nel 2013 è stato condannato in primo grado a quattro anni e mezzo per una ulteriore bancarotta, quella della Spal, ma assolto dall’associazione per delinquere finalizzata alla bancarotta e dal falso in bilancio.
La schiavitù invisibile dei soci – Uno dei capitoli più duri è quello sui “nuovi schiavi invisibili” delle cooperative che fanno intermediazione di manodopera. Le storie raccolte in Coop connection parlano di giornate di lavoro senza nemmeno una pausa per mangiare, senza malattia, ferie o tredicesima, ogni giorno in un posto diverso (ogni sera una mail o un sms avverte dove occorre trovarsi la mattina dopo), dormendo in auto. Per 800, 1000 euro al mese. “Il denaro lo ricevi in contante dal caporale e le ore lavorate sono almeno il doppio di quelle pagate”. Un universo di simil schiavitù, appunto, che si regge sul fatto che questi lavoratori sulla carta figurano come soci della cooperativa. Di conseguenza non possono rivolgersi alla magistratura del lavoro: non sono dipendenti. “La causa spetta al tribunale ordinario. E anche lì tutti risultano in regola. L’azienda non ha mai assunto nessun, perché ha appaltato l’attività alla coop. E questa ha inquadrato il lavoratore come socio-imprenditore”. Questo sistema non è nuovo, ma fino all’anno scorso i caporali rischiavano da 5 a 8 anni di carcere e gli imprenditori da 8 a 20 anni. Ora non più: il decreto 81 del 15 giugno 2015, attuativo del Jobs Act, ha abrogato il reato di somministrazione fraudolenta di manodopera.
La mafia nella terra delle coop – L’Emilia rossa delle cooperative è anche terra di mafia, come provato dal processo Aemilia la cui prima parte si è conclusa con 58 condanne per reati che vanno dall’associazione mafiosa al concorso esterno. E, scrive Amorosi, “se Reggio Emilia è la patria di qualche migliaio di immigrati da Cutro, Crotone, sono i Casalesi ad aver costruito l’Emilia con le loro imprese nei subappalti delle coop”. Ma è successo anche il contrario: “La Crc, Cooperativa ravennate costruttori, scende a Palermo per costruire alloggi popolari. Trova un modo di convivere con i padrini. Come anche la Conscoop di Forlì, il Consorzio generale delle cooperative, che vince appalti con le imprese di Arturo Cassina, definito nel 1976 dal deputato Pio La Torre “un pilastro del sistema mafioso””. E ancora, ci sono “l’ex killer della ‘ndrangheta, accusato di corruzione ed estorsione, proprietario e amministratore della Doro group, società che dal 2004 al 2007 ha gestito i servizi di terra dell’aeroporto Marconi di Bologna”, “il faccendiere Giovanni Costa, condannato per riciclaggio dei soldi di Cosa Nostra, arrestato nel crac Urafin – la finanziaria collegata all’ex presidente del Bologna calcio Tommaso Fabbretti”. E tra gli arrestati nell’ambito dell’inchiesta Aemilia compaiono Augusto Bianchini, imprenditore edile del modenese che con la sua azienda ha partecipato agli appalti per la ricostruzione post sisma affidatigli dalla Cmc di Ravenna, e Michele Colacino, autotrasportatore accusato di associazione di stampo mafioso che per mezzo di Transcoop “otteneva appalti da Iren spa, la multiutility dell’energia che le cosche, in lotta fra loro, tentano di comprarsi tramite Enia, la scatola societaria emiliana, come emerge dall’inchiesta Morsa del pm Nicola Gratteri“.
Libera e i finanziamenti di Unieco – Ce n’è anche per Libera, il coordinamento di associazioni e cooperative antimafia presieduto da don Luigi Ciotti. “Ha tre partner ufficiali, Unipolis (fondazione del gruppo Unipol, ndr), Unipol spa ed E-coop, la catena di distribuzione della cooperazione”, scrive Amorosi. “”L’associazione ha entrate milionarie (…) il enaro arriva dalla gestione dei beni confiscati, dalla raccolta fondi, dal finanziamento di progetti, dall’attività di formazione, dall’8 per mille, dal tesseramento e dai campi estivi”. Ma non solo: “Unipolis versa ogni anno 70mila euro. Ma anche le coop, Unipol e banche quali Mps, Unicredit, Carige, Bnl e una miriade di grandi fondazioni fanno altrettanto, come Telecom, Crt, la Sud finanziata da Mps, Vodafone, Bnc e tante altre”. E ancora: “Non è un problema per l’associazione avere tra gli sponsor la coop di costruzioni Unieco di Reggio Emilia, che si vanta pure di finanziarla. Unieco nei suoi cantieri fa lavorare società della ‘ndrangheta: dei Morabito, Palamara, Bruzzaniti, Piromalli, Gullace, Raso, Albanese, che sul mercato propongono le offerte economiche più convenienti”.