«C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe dei ricchi che ha scatenato questa guerra, e la stiamo vincendo» così affermava Warren Buffet al New York Times nel 2006. Questa dichiarazione di vittoria dovrebbe far riflettere. Dovremmo domandarci che cosa sia successo, negli ultimi decenni, per farci apparire questa vittoria talmente ovvia da non provocare reazione alcuna. Certo, sarebbe superficiale e inesatto parlare, come fanno gli aedi sempliciotti à la Francis Fukuyama, di “fine della storia”, versione lievemente più elaborata del thatcheriano T.I.N.A. (“there is no alternative” – non c’è alternativa); tuttavia, appare evidente che in questo determinato periodo storico si sia affermata una versione particolarmente aggressiva e totalitaria di un “capitalismo” (termine peraltro piuttosto sfuggente alle definizioni) che, in altre epoche, era dovuto venire a patti con istanze politiche che ne attenuavano il dominio sulla società.
Il dopoguerra, nelle varie nazioni europee, (“in certe parti più, e meno altrove”) è stato caratterizzato da una sorta di “nuovo patto sociale” che, per brevità, e quindi con una certa imprecisione, potremmo definire “modello Beveridge – Keynes”. Un modello caratterizzato da una ripartizione più equa del rapporto salari/profitti (e quindi un benessere sociale diffuso) e da una serie di tutele sociali dei cittadini da parte dello Stato, ossia quello che, con un inutile anglicismo è definito Welfare State: sanità e istruzione pubbliche, sistema pensionistico, contrattazione collettiva, ecc. Queste “patto sociale” è stato oggetto, negli ultimi decenni, di un attacco senza quartiere da parte di quello che un tempo si chiamava “padronato”, reminiscenza quasi ottocentesca per definire i poteri economici dominanti.
Questi ultimi si sono avvalsi di efficienti fantaccini reclutati all’uopo: i principali partiti politici dei paesi occidentali, le istituzioni internazionali (Imf, Wto, ecc.), gli organi di gestione autocratici (parlare di “governo” ci pare un po’ esagerato) di quell’entità ibrida chiamata Unione Europea, nonché di vari corifei di regime come gli intellettuali organici, il “clero universitario regolare” (definizione di Costanzo Preve) e i vari mezzi di comunicazione (media whores o presstitutes, per usare un anglicismo che, in questo caso, non è inutile). Non v’è quindi da stupirsi se, almeno temporaneamente, questa guerra sia stata vinta dalla classe alla quale appartiene il miliardario summenzionato. Questa vittoria è andata di pari passo con una mutazione che non è stata solo politica e ideologica ma, soprattutto, antropologica.
Tant’è che oggi, soprattutto per coloro che si ritengono appartenenti alla confusa area sinistreggiante, le “ideologie” sono state sostituite con l’idolatria per una forma totemica di “mercato”, considerata il “summum bonum”, il termine di riferimento di ogni azione politica e il fine ultimo della società. Il vitello d’oro al quale si devono sacrificare gli esseri umani, le comunità, la storia e la natura. A questo punto, tuttavia, sorge spontanea un’altra domanda: cos’è successo in questi decenni per trasformare i partiti che un tempo avevano come ragione d’essere il ruolo di fidati cani da guardia dei poteri finanziari e industriali transnazionali? L’opera di Paolo Borgognone: L’immagine sinistra della globalizzazione (Zambon Editore, 2016), assai pregevole e ponderosa (1044 pagine), fornisce molte risposte a queste domande e ci guida attraverso il processo storico e culturale che ha condotto alla mutazione antropologica, ancor prima che politica, di quello che Costanzo Preve definì: «L’orrendo serpentone metamorfico Pci/Pds/Ds/Pd», che si è trasformato nel tempo, secondo le parole dell’autore: « da partito con velleità di rappresentanza delle classi subalterne, lavoratrici e salariate, a partito garante degli interessi del capitalismo globalizzato».
Perché – è un dato storico – sono stati i partiti della cosiddetta “sinistra” che hanno promosso e gestito lo smantellamento dei diritti sociali conquistati in decenni di lotte, la privatizzazione del patrimonio dello stato e delle aziende pubbliche, le leggi che codificano la precarizzazione del lavoro ( “jobs act” per i parvenu), e l’accettazione acritica delle politiche economiche di Bruxelles e di Francoforte. Il tutto dietro la scusa, patetica – perché la politica non è il limitarsi ad attraversare sulle strisce pedonali – del summenzionato T.I.N.A. Il libro documenta, con dovizia di particolari, la lunga strada percorsa dall’orrendo serpentone, che è iniziata con la difesa dei diritti dei lavoratori per finire, ingloriosamente col vergognoso spettacolo al quale assistiamo oggi: la servile protervia con la quale si sta smantellando l’ultimo impiccio che ostacola la trasformazione del nostro paese da democrazia a “mercatocrazia”: la Costituzione italiana (JP Morgan ringrazia sentitamente).
Come recita l’introduzione del volume: «È proprio per allineare la Costituzione e l’Italia il più rapidamente possibile a questi orizzonti liberisti (a cominciare da una legge elettorale ipermaggioritaria che impedisca l’ingresso in parlamento di qualsiasi forma di opposizione) che il capitalismo italiano e internazionale hanno puntato sul cavallo Matteo Renzi, della scuderia Pd, che al momento sembrerebbe il più veloce. Se tutto andrà bene, nell’Italia “napolitan-renziana”, l’unica forma di vita apparentemente democratica sarà presente solo nelle assemblee condominiali»