Leggo il romanzo di Paolo Bianchi, L’intelligenza è un disturbo mentale, uscito in questi giorni per Cairo Editore, e non posso non ammirare la sua onestà. Questo tipo di onestà – esercitata dallo scrittore piemontese, giornalista di Libero, blogger – diventa coraggio, perché racconta la malattia psichica senza cedere alla lusinga di un accomodamento che sia conforme a una qualche specie di orgoglio. Non c’è un eroe nel suo romanzo, pure raccontando di sé. E già questa è un’operazione mimetica difficilissima da realizzarsi. Paolo Bianchi è bipolare, la sua è una confessione tout court: il romanzo divide in brevi capitoli i suoi misurati inferni, i ricoveri, la devastazione delle terapie, i dosaggi, le sale d’attesa, i luminari. La sua non guarigione. L’assoluta solitudine. Mi colpisce profondamente la sua assoluta solitudine. Così smonteremo tutte le banalità del caso quando si racconta di quell’universo parallelo dove rovineranno sensibilità sopra le righe.
Non ha rinunciato al piacere della parola che diventa narrazione; Bianchi racconta la sua vita, riassume la sua adolescenza nei dettagli che saranno soltanto una funzione per riconoscere il male che lo avvince, che deve recuperare nelle regioni oscure della sua psiche, risalire la corrente fino all’origine del trauma, gli spiega uno dei tanti luminari interrogato con il terrore dell’ultima ratio sempre. L’origine è sconosciuta, luogo non identificato. L’intelligenza è un disturbo mentale non è biografismo, rimane letteratura, malgrado parli del suo dolore, un dolore perenne che la medicina ha chiamato bipolarismo (o bipolarità). Rimango dell’idea che chi scrive abbia questa responsabilità e non possa sfuggirne in alcuna maniera: tradurre il dolore del mondo, che piaccia o meno, indossarlo all’incirca, un calco, uno stigma. Paolo Bianchi è stato coraggioso, non so se riuscirò mai a raccontare le mie paranoie, le mie vere paranoie, con la stessa temerarietà, così senza pelle. Lui ovviamente ha fatto molto molto di più.