Arriva dall’Asia l’ennesimo scandalo finanziario che questa volta vede coinvolta un istituto bancario svizzero, la Banca della Svizzera Italiana (BSI), con alle spalle una tradizione di 140 anni. Ma questo è uno scandalo che non rimarrà circoscritto ad una singola istituzione; la Bsi è solo la prima di una lunga serie di banche occidentali, cresciute a dismisura negli anni della globalizzazione, che stanno per finire nel mirino delle autorità monetarie di mezzo mondo in relazione alle loro attività a Singapore. Nonostante l’isola si sia arricchita, per almeno due decadi, offrendo ad individui ed istituzioni straniere una vasta gamma di servizi tipici dei paradisi fiscali, chi la governa continua a negare che sia un paradiso fiscale. “Singapore non è un paradiso fiscale, è un centro a valore aggiunto” questa è la risposta che, nel 2015, il Consiglio per lo sviluppo economico della nazione, l’agenzia governativa di Singapore, ha usato per contrastare le accuse mosse da varie istituzioni e governi stranieri riguardo ai metodi usati per attrarre investimenti ed imprese provenienti dalle loro nazioni.

Clamoroso il caso di un gruppo di aziende australiane accusate dal governo di Canberra di aver utilizzato l’isola per aggirare il fiscoSecondo l’ufficio delle tasse australiano (Ato), tra il 2012 ed il 2013, alcune aziende australiane hanno inviato più di 100 miliardi di dollari alle filiali ubicate a Singapore, approfittando della sua bassa tassazione. L’aliquota fiscale imposta alle società in Australia è infatti 30%, mentre a Singapore è appena il 17%, ma non basta: nell’isola non esiste alcuna tassazione sulle plusvalenze. E’ innegabile che la natura canaglia della globalizzazione economica e finanziaria abbia offerto a centri finanziari come Singapore o Dubai la possibilità di arricchirsi alle spalle dei contribuenti stranieri. Imprese globali come Google, Apple, Microsoft, Bhp Billiton e Rio Tinto, ad esempio, hanno ammesso di aver aggirato il fisco – si badi bene che questa operazione è ben diversa dall’evasione fiscale – grazie alle loro succursali ubicate a Singapore. Sebbene queste operazioni non possano essere definite fraudolente, erodono in ogni caso il sistema etico su cui dovrebbe poggiare l’attività economica e quella finanziaria.

Paradisi fiscali come Singapore o Dubai, dove i controlli sono labili o inesistenti, finiscono per rendere possibili attività reputate illegali e non etiche in altri paesi, e quindi le legittimano. Le origini dello scandalo che ha coinvolto la Bsi vanno ricercate nella scarsa legislazione e nei labili controlli della piazza di Singapore. In primis si tratta di attività di riciclaggio relative al fondo sovrano malese, di cui la banca era uno dei gestori, ma si parla anche di appropriazione indebita da parte di politici di spicco. In altre parole ci troviamo di fronte al solito ginepraio di abusi e frodi gestite da una classe politica in collusione con un élite finanziaria, sullo sfondo di un sistema di controlli che fa cilecca, un film che abbiamo già visto decine di volte. Ciò che colpisce in questa triste storia è come sia possibile che, a quasi 10 anni dallo scandalo della Lehman, ci venga riproposta questa pellicola e che la protagonista sia una banca svizzera con un’eccellente reputazione come la Bsi, caduta in mano ad un gruppo di individui senza scrupoli, principalmente asiatici, che l’hanno trasformata in uno strumento per attività illecite.

I retroscena di questa metamorfosi sono ben noti. Nel 2011 alla Bsi, di proprietà del gruppo assicurativo italiano Generali, si presenta l’occasione di diventare una delle prime 10 banche private in Asia ed allo stesso tempo di triplicare i fondi asiatici in gestione a 9 miliardi di dollari entro il 2015. Dal 2010 Singapore è diventata il terreno dove i giganti della finanza mondiale combattono per accaparrarsi grosse fette del private banking asiatico, sferrando offerte di salari e bonus a sette cifre. La Bsi la spunta ed acquista in un colpo solo il team della Rbs Coutts: 25 dirigenti con responsabilità strategiche ed un personale di supporto di circa 75 individui. Questi portano con loro una clientela miliardaria composta da ricchi indiani e indonesiani. A questo punto tutto cambia. Il sangue nuovo è troppo e contamina quello vecchio.

Cinque dirigenti del gruppo proveniente dalla Coutts iniziano una battaglia serrata contro quelli vecchi, vogliono spiazzarli, farli fuori. A poco a poco prendono in mano la gestione della filiale, che fino al 2011 era rimasta saldamente nelle mani dei banchieri cresciuti alla scuola finanziaria svizzera, diametralmente opposta da quella della Wall Street degli anni. Cambiano anche i nomi di rilievo del personale che diventa sempre più asiatico. Basta dare un’occhiata ai nominativi apparsi sulla stampa mondiale questa settimana: Raj Sriram, l’ex Deputy Ceo, Yak Yew Chee, ex Senior Private Banker, Yeo Jiawei, ex wealth manager e Seah Yew Foong Yvonne, ex Senior Private Banker. Chi pensa che questa storia di avidità finisca qui si sbaglia, nelle prossime settimane il cerchio si allargherà, ma come sempre poco o nulla si farà per evitare il prossimo scandalo. Così tra qualche anno assisteremo ad un’altra versione dello stesso film.

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