Rue des Quatre Vents 79, Molenbeek. Bruxelles. Sei fermate di metropolitana la separano da Maelbeek, la stazione a pochi metri da Parlamento europeo colpita da un attacco terroristico il 22 marzo. Bruxelles è tornata a un’apparente normalità, con la sua atmosfera da eterno Erasmus e il brusio di lingue, etnie e nazionalità che popola le strade. E anche a Rue des Quatre Vents la vita scorre come se gli attentati nella capitale belga e a Parigi non ci fossero mai stati. Al civico 79 la polizia ha arrestato il 18 marzo Salah Abdeslam, uomo del commando delle stragi del 13 novembre, rimasto latitante per mesi. Era nascosto al piano terra di uno stabile come tanti, nel quartiere considerato il cuore del jihadismo europeo. Al posto delle finestre ci sono alcuni pannelli di legno bianco. Tutto chiuso. Ma al primo e secondo piano “vivono tre famiglie”, dice la farmacista a fianco. “Siamo contenti che i giornalisti vengano di persona a vedere cosa c’è qui, dopo mesi di falsità che ci hanno scioccato”, dicono dal Comune. “Anche in Italia avete quartieri simili. Anzi, molto peggiori – dice Johan Leman dell’associazione Le Foyer, in piena Molenbeek -. Lo Stato e la politica spingono sulla retorica della deradicalizzazione, ma la verità è che qui mancano infrastrutture sociali e forze dell’ordine. A differenza di come ci hanno descritto, non siamo un set di Ncis“.
Di fatto Molenbeek sembra un quartiere come tanti a Bruxelles, molto lontano dagli stereotipi di insicurezza, aggressività, crimine e pericolo che hanno riempito le pagine dei giornali negli ultimi mesi. Multiculturale, residenziale. I negozi sono tutti aperti: macellerie halal, fruttivendoli, panetterie. Ci sono albanesi, emigrati dell’est Europa, maghrebini, africani. E belgi. Non tutte le donne sono velate, e al massimo portano l’hijab, lasciando il volto scoperto. Niente burqa o niqab. E nessuno sguardo o parola inopportuna verso chi è vestito all’occidentale. Nel parco giocano decine di bambini, illuminati da un insolito – limpidissimo – sole. “Questo è un posto normale, non abbiamo chiuso neanche un giorno”, spiegano le maestre della scuola al lato del covo di Abdeslam, frequentata da 500 bambini di asilo ed elementari. Sono le uniche restie a parlare. Cordiali, ma vogliono tutelare i bambini. Per chi vive nella zona sembra che gli attentati siano stati una vicenda più mediatica che reale, che Salah e la sua rete fossero impalpabili. Un racconto sbiadito. “Ma davvero lo state ancora cercando? Cosa c’è ancora da dire su questo Abdequalcosa“, chiede la barista albanese mentre serve alcuni muratori belgi, birra e tute da lavoro. Niente, su Salah non c’è niente. Eppure è lì che si è nascosto per mesi, è quello il crocevia, la casa, la base per gli attacchi che hanno colpito l’Europa.
“Ci sarà sempre un prima e dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles“, spiega Rajae Maouane (a sinistra), nello staff di Sarah Turine, assessore per la coesione sociale e il dialogo interculturale di Molenbeek. Venticinque anni, origini marocchine, non porta il velo ed è nata e cresciuta lì. Conosce bene il quartiere e le sue strade, conosceva Salah e suo fratello Mohamed, che lavorava per il Comune. E’ stato licenziato dopo avere “minimizzato” le colpe dell’aspirante kamikaze in alcune dichiarazioni ai media. “Gli attacchi sono stati uno choc, soprattutto per i giovani. Tutti prendiamo la metropolitana. Se Daesh sperava di conquistare più anime e foreign fighters, sappia che gli attentati hanno avuto l’effetto contrario”. Ma finora è stato proprio il Belgio a detenere il record dei combattenti partiti per raggiungere lo Stato Islamico (in termini percentuali e non assoluti rispetto alla popolazione). “Qui abbiamo la comunità marocchina più grande del Paese. Siamo il quartiere più giovane di Bruxelles e il quarto più povero. Il 50 per cento dei giovani è disoccupato. Ci sono anche tanti congolesi, ma non si vedono in giro, perché si ritrovano a a Ixelles e Matongué. Abbiamo 97mila abitanti e 24 moschee“. Tante. Troppe. “Sì, anche secondo me. Ma non è quello il problema. Io lì, come tanti altri, ho imparato l’arabo e la mia cultura d’origine. Il nodo sono le salles de prière. Stanze, café, sedicenti associazioni culturali dove si radicalizza. Non li riconosci, non li distingui. Chi li frequenta non ne parla”. Maouane cita il sociologo Raphaël Liogier, secondo cui “non si tratta di Islam violento, ma di islamizzazione della violenza”. Legata a condizioni culturali precise. Esiste il nodo identitario delle seconde e terze generazioni, “perché gli arabi sono immigrati, mentre gli europei di altri paesi sono considerati expat?”. Spiega di essere stata discriminata a scuola perché marocchina, che per lo stesso motivo alla sorella non hanno concesso l’affitto di un appartamento. “E’ chiaro, non sto giustificando nulla – precisa – ma ci sono problemi di discriminazione. Dall’11 settembre non siamo più considerati arabi, ma musulmani. Dopo gli attacchi del 22 marzo alcune donne con l’hijab sono state picchiate. Ci sono generazioni perdute, giovani nati e cresciuti qui che, però, non vengono considerati belgi, ma stranieri“. Il tutto aggravato dagli investimenti fatti dall’amministrazione, inizialmente anche per favorire l’integrazione. “Hanno costruito campi da calcio, posti dove fare sport. Ma qui servono corsi di francese, club di teatro, di musica. Infrastrutture educative, per tenere impegnate sì le persone, ma anche dal punto di vista culturale, non solo fisico”. E’ convinta che non sia stata l’omertà a coprire Salah, ma soltanto la sua rete di contatti. “E voglio dire una cosa: queste non sono le banlieue parigine, dove i giornalisti non li fanno neanche entrare. Andate a chiedere. Qui lei che problemi ha avuto? Nessuno. Siamo tranquilli, aperti, parliamo con tutti. Abbiamo provato molto dolore a sentirci descritti come ‘il Califfato d’Europa‘. Sui giornali, in tv. Non è giusto, non è vero”.
A sorridere davanti a quanto scritto dai media è anche Johan Leman (a sinistra) dell’associazione Le Foyer, dove lavora da oltre trent’anni. Ambito educativo e culturale. Intorno al Foyer ruotano circa tremila persone, tutti del quartiere. “Capisco che i giornali abbiano voluto descriverci come su un set di Ncis, devono portare a casa un risultato che soddisfi la voglia di adrenalina dei capi. Ma su di noi è stato costruito uno stereotipo surreale, molto lontano dalla realtà”. E sottolinea come nel quartiere ci siano anche tante potenzialità. “E’ chiaro: chi fa carriera se ne va da qui, chi rimane si dedica a piccole attività commerciali. Abbiamo anche diversi medici, farmacisti, anche tanti sportivi. Lo sa che abbiamo portato anche un atleta a Beijing e Atene? Si chiama Monder Rizki“. Ma anche diventare grandi campioni è difficile a Molenbeek. “Qui c’è troppo stress, mancano le infrastrutture per diventare dei grandi. Continuiamo a investire molto al Foyer nello sport. Vogliamo indirizzare i giovani con potenzialità nei grandi club, ma puntiamo soprattutto a farli diventare dei bravi allentatori, un ruolo di responsabilità e di cura dell’altro”. Leman e il suo staff lavorano con tutte le comunità musulmane, salafiti inclusi. “Loro come alcune altre minoranze islamiche non sono costruttive, purtroppo. Vivono chiusi nel proprio gruppo, usano la democrazia per costruite il loro tipo di società. Così come i Fratelli musulmani. Il problema è capire fino a che punto possono farlo, capire i limiti da fissare. Ma in ogni caso non sono loro che partono come foreigh fighters per la Siria“. Chi se ne va, diceva Maouane, sono “piccoli criminali, spacciatori, gente che beveva e quindi non era per niente musulmana“. A collaborare attivamente nel quartiere, invece, sono le tre grandi moschee di Molenbeek “rimaste profondamente danneggiate da quello che è successo”. “Facciamo corsi per padri, mamme e figli. Agli uomini spieghiamo che non esistono solo il bar e la moschea, e sproniamo le donne a desiderare che i figli siano ambiziosi. Insieme ai ragazzi cerchiamo di decostruire quello che vedono sui social media. Immagini, video, messaggi. Spesso confondono virtuale e reale. Poi incontriamo anche le mamme dei foreign fighters perché spieghino ai genitori quando i figli sono sulla strada della radicalizzazione”. E quali sono i segni di allarme? “Quando si isolano dalla famiglia, quando vivono di notte e non di giorno e assumono posizioni estremiste sull’Islam, rifiutando la discussione”.
In ogni caso, continua, la prevenzione sul territorio non può essere affidata solo alle associazioni. “Di questo dovrebbero occuparsi servizi segreti e polizia, non la gente del quartiere. Il Belgio deve imparare a gestire gli estremisti. Ora vogliono mandare i nostri agenti a fare training in Marocco o Tunisia, ma sbagliano. Dovrebbero mandarli in Italia, dove c’è un passato di mafia e di terrorismo. La vostra polizia è preparata, non come la nostra, che non va a cercare le salles de prière dove si radicalizza. Ma cosa ci vuole?”. Non c’è nemmeno da stupirsi se da Molenbeek e dal Belgio siano partiti gli attacchi perché, dice, “sin dall’origine del Groupe islamique armé, Bruxelles ha sempre rappresentato dal punto di vista strategico il luogo della ‘ritirata’ da Parigi, della retroguardia sicura. E’ al centro dell’Europa ed è un punto cruciale di smistamento dei flussi di droga diretti a Nord e a Est“. Per Leman “è facile nascondersi qui, la storia ce lo insegna. Dovrebbero conoscerla anche le forze dell’ordine e lo Stato che, nonostante le promesse, lascia questi quartieri abbandonati a se stessi”. Un quartiere però, dove la gente sapeva?” Credo che a essere informati della presenza di Salah dopo gli attacchi fossero al massimo la sua filiera e forse qualche parente. Basta. Poi non dimentichiamo anche l’abitudine tutta mediterranea della difesa del sangue del proprio sangue. Quindi magari so, ma taccio”. E ricorda un episodio rappresentativo del caos di quei giorni. “Dopo gli attentati a Bruxelles due ragazzi erano venuti al Foyer, certi che l’uomo col cappello fosse – come poi è stato verificato – Mohamed Abrini“. Poi un altro è arrivato alla sede dell’associazione e li ha smentiti. “Potevo andare alla polizia?”, si domanda Leman. “Se fossi stato sicuro, sì. Ma nel mio caso rischiavo di segnalare una persona innocente. Un gesto così, in questo quartiere, si paga molto caro. Perdendo il lavoro, ad esempio. E il conto lo paga tutta la famiglia“.