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Ttip, l’allarmismo sulla democrazia svuotata non regge

Vedo con una certa soddisfazione che si può riuscire a portare il dibattito sul Ttip oltre gli slogan sul pollo alla clorina (che non è nel Ttip) e la carne agli ormoni (che non è nel Ttip) o gli Ogm (che non sono nel Ttip). Nonostante la quantità di commenti di dubbia utilità che arrivano qua sul sito. Perfino la campagna Stop Ttip, andando un po’ più nel merito, ha pubblicato un’analisi nel suo ultimo post che offre degli spunti. E che dimostra quanta differenza c’è tra il messaggio da piazza, quello da condensare in uno slogan, e ragionamenti un po’ più articolati. Magari discutibili, ma articolati.

Siamo passati dalla tesi secondo cui gli Isds, cioè i meccanismi di risoluzione dei contenziosi che sono previsti dal Ttip, minacciano la democrazia e permetteranno alle multinazionali di distruggere le tutele del nostro mercato del lavoro (quelle poche che sono rimaste) alla considerazione che i tribunali arbitrali possono rivelarsi piuttosto costosi per gli Stati anche quando hanno ragione.

Il caso Philip Morris è il più noto: il gigante del tabacco contesta la decisione dell’Australia di vietare i marchi sui pacchetti di sigarette (su questo c’è anche un contenzioso al Wto) e, dopo aver fallito nei binari della giustizia ordinaria, tenta una mossa spregiudicata. Philip Morris Asia, basata a Hong Kong, acquisisce la filiale australiana della stessa azienda. Così da provare a sostenere che la decisione del parlamento di vietare nel 2011 i loghi sui pacchetti violava un trattato internazionale del 1993 tra Hong Kong e l’Australia. E’ finita, a dicembre 2015, con la decisione unanime del tribunale arbitrale – un arbitro nominato da Philip Morris, uno dall’Australia, uno imparziale – che la richiesta era infondata. Perché Philip Morris aveva tentato di usare in modo improprio gli strumenti di tutela degli investimenti per quello che non era un investimento, ma una mossa per aggirare le decisioni del sistema giudiziario interno.

La campagna Stop Ttip è comunque insoddisfatta perché, secondo alcune fonti di cui non ho trovato conferme ufficiali, l‘Australia avrebbe pagato 50 milioni di dollari per la propria difesa. Gli arbitri possono costare anche 600-700 dollari all’ora. Per la verità, sul sito del governo australiano, si legge che l’Australia ha vinto e che il verdetto è “subject to finalisation of the costs claim” . Cioè qualcuno chiede i costi a qualcun altro e, si può dedurne, sarà il governo a chiedere a Philip Morris il rimborso delle spese legali sostenute. Le regole su chi paga cosa negli arbitrati internazionali sono piuttosto ambigue, spesso non è neppure specificato nell’accordo. Ergo, se è questo il problema degli Isds, basta chiarirlo bene e affrontarlo.

E comunque, 50 milioni di dollari australiani per un singolo caso sono una bella cifra, ma stiamo parlando di un grande Paese, che ha un budget federale di 470 miliardi. Non è una buona ragione per sprecare soldi, ma cerchiamo di mantenere il senso delle proporzioni. Nella sua proposta su come modificare gli Isds contenuti nel Ttip, passando a una corte arbitrale permanente, la Commissione europea ha previsto una sorta di filtro per bloccare subito le richieste completamente infondate, tipo quella di Philip Morris. Che poi funzioni o che sia davvero questa la formula definitiva che prenderà lo strumento di soluzione delle controversie nel Ttip è ancora tutto da vedere.

Ma dire che negli Isds o in generale negli arbitrati lo Stato non vince mai è proprio scorretto, anche se la campagna Stop Ttip insiste. Al massimo si può dire che lo Stato non ci guadagna mai, ma è parecchio diverso. Visto che si tratta di strumenti per tutelare gli investitori, il contenzioso può chiudersi in tre modi: un accordo, viene accolta l’istanza dell’investitore che si sente discriminato, viene accolta la tesi dello Stato che ritiene di non aver travalicato le proprie competenze. Punto. Il tentativo di far credere che gli Isd distruggeranno la nostra democrazia è un po’ maldestro.

Il caso del Sud Africa citato sempre dagli anti-Ttip è più interessante, ma anche quello ha vari livelli di lettura. La compagnia mineraria che contestava una espropriazione di fatto, sia pure in nome della nobile causa della restituzione di pezzi di economia ai neri dopo l’Apartheid, ha chiuso un accordo con il governo e ha ceduto soltanto il 5 per cento invece del 26. Legittimo dedurre che la richiesta di indennizzo da 350 milioni abbia condizionato il governo e lo abbia spinto ad accettare. Ma non sarebbe stato più tutelato con un sistema di arbitrato funzionante, con giudici indipendenti che avrebbero subito respinto un’istanza infondata? Dobbiamo anche considerare, ma io non ho le conoscenze per una valutazione approfondita, l’ipotesi che la compagnia mineraria avesse i giusti titoli giuridici per lamentarsi. E che, quindi, forse l’accordo che ha chiuso con il governo magari è stato il meno peggio che il Sud Africa poteva auspicare. Non lo so, ma non basta dire che c’è stato un accordo per sostenere che si è trattato di un’estorsione.

In ogni caso queste non mi sembrano argomentazioni che portano alla conclusione “dobbiamo opporci al Ttip perché contiene gli Isds”. Se le imprese americane fossero così abili e spietate nello smantellare i nostri diritti e tutele, qui in Europa, avrebbero già avuto molte occasioni di farlo usando gli accordi bilaterali o altri tribunali internazionali come il Wto. O vogliamo forse insinuare che sono state così preveggenti da attendere il Ttip per poi fare una causa sola e beneficare poi dei risultati in tutta l’Ue?  Tutto è possibile, ma mi sembra che sia più ragionevole tenere un approccio pragmatico. Gli Isds o la corte Ics sono punti sicuramente sensibili del Ttip, cui bisogna prestare attenzione.

A mio parere hanno perfettamente ragione gli Europarlamentari di opposizione che insistono per avere una corte davvero indipendente, fatta di arbitri che non hanno potenziali conflitti di interesse perché sono – sul modello dei magistrati italiani – arbitri a tempo pieno, con una retribuzione fissa e non parametrata al valore o alla durata del contenzioso.

I cattivissimi eurocrati che, secondo la caricatura di molti commentatori qui e nelle piazze, fremono dall’impazienza di distruggere l’economia europea a tutto vantaggio delle multinazionali Usa hanno imparato dall’esperienza. E negli accordi che hanno firmato in questi anni, con il Canada, con Singapore e ora nel Ttip, hanno corretto alcune falle del sistema. Il Peterson Institute  ha pubblicato un’interessante analisi che dimostra come gli standard europei siano migliorati, anche se non tutti i cambiamenti sono stati recepiti nel sistema di Isds previsto dal Tpp, il trattato commerciale gemello del Ttip che gli Usa stanno negoziando con gran parte dei Paesi asiatici (tranne la Cina).

Il sistema degli Isds nei trattati con Canada e Singapore prevede, tra l’altro, che chi perde l’arbitrato  si accolli tutti i costi legali (un deterrente per le multinazionali), che i Paesi possano stabilire l’interpretazione autentica di alcune norme della quale poi gli arbitri, in caso di contenzioso, dovranno tenere conto, che gli Stati hanno tutto il diritto di legiferare perseguendo salute, tutela dell’ambiente o promuovere la diversità (e se questi sono obiettivi legittimi, diventa più difficile sostenere che l’impresa è stata penalizzata come ritorsione commerciale). Se il compromesso finale su Isds si muoverà su queste linee, non vedo catastrofi imminenti.

Ma è giusto monitorare il processo e fare pressione perché vada nella direzione di una sempre maggiore trasparenza e tutela dei diritti. Questo significa lavorare per un Ttip migliore (e i movimenti di protesta sono riusciti a migliorarlo), non raccontare la favola che se passa il Ttip è finita la democrazia.

Anche perché il Ttip ha una rilevanza geopolitica evidente. Se si definisce un buon sistema di corti arbitrali in quel trattato, si potrà cercare di imporre quello standard anche alla Cina. Che sta premendo su Bruxelles: in Italia se ne parla poco, ma la concessione alla Repubblica popolare dello Status di economia di mercato, se arriverà a dicembre, è una minaccia molto più immediata e reale del Ttip.

L’argomento secondo cui la guerra commerciale che l’Ue ha combattuto per evitare l’importazione di carne agli ormoni dimostra che con il Ttip arriverà carne agli ormoni è invece così sballato e strumentale che merita un ulteriore approfondimento. Appena ho il tempo ne scrivo.