Sono atterrati a Fiumicino alle 5.20 del mattino. Fuori era ancora buio. Salendo sull’aereo pensavano forse di essersi lasciati dietro le spalle la durezza degli orfanotrofi di Kinshasa nei quali hanno vissuto due, tre, cinque anni senza aver mai messo piede fuori. Arriva il giorno della liberazione ma quello che trovano, come prima accoglienza da cittadini italiani, è un furgone della polizia che li condurrà alla caserma Petri di Spinaceto. In attesa del via libera alla consegna.
Venti, forse trenta, alla fine saranno 41. Tutt’ora il numero è incerto. Non è stato precisato dalla Commissione adozioni internazionali (Cai) l’ente governativo che sovrintende le procedure di adozione e gestisce anche la consegna dei bimbi alle coppie italiane. Ente che da venti giorni, in seguito alle polemiche sulla gestione della ex numero uno Silvia Della Monica, è ora presieduto dal ministro Maria Elena Boschi. Le coppie sono proprio lì fuori, nella sala d’attesa dell’aeroporto, bramose di prendere i loro piccoli dopo anni sfibranti di attesa e incertezze. Dell’arrivo hanno saputo solo per vie ufficiose: chi dal personale degli enti adottivi e chi da canali locali, più solerti e meno avari di informazioni delle autorità italiane. Molti si sono trovati a mollare qualunque impegno per non mancare la “chiamata” ed essere lì, puntuali, in aeroporto. Una volta arrivati hanno atteso e dopo tre, quattro, cinque ore finché qualcuno perde la pazienza e si dirige all’ufficio di Polizia dell’aeroporto per denunciare quanto sta accadendo.
Era successo in aprile e maggio quando, di fronte ad analogo comportamento delle autorità, alcuni genitori avevano effettivamente sporto denuncia per sequestro di minore. Forse non a torto: l’11 aprile scorso un bimbo tra i 51 portati in caserma prima di essere affidati ai genitori si è sentito male ed è stato ricoverato al Bambin Gesù di Roma per essere sottoposto a idratazione forzata. I genitori in attesa lo sanno, se ne ricordano. Il caos e la rabbia montano, mentre da una parte all’altra d’Italia nuove famiglie vengono informate alla spicciolata e partono alla volta di Roma, dove è atteso un altro volo nel pomeriggio. Alcune coppie sono state avvertiti a mezzogiorno, quando il bimbo in abbinamento era in Italia da un pezzo. Chi parte in auto dalla Puglia, chi dalla Sicilia. Arriveranno a sera, se va bene.
E’ andata meglio ai genitori di Rebecca, una bimba di cinque anni. La aspettavano da tre e mai avrebbero pensato che il giorno più felice della vita si sarebbe trasformato in un incubo. “Ora la lascio, non conta più nulla, certo che abbiamo sofferto e ne riparleremo. Ma dopo cinque ore la abbraccio e quindi non ho tempo”, dice la madre Mery con la voce rotta dall’emozione. Un grido, dentro. “Siamo partiti dalla provincia di Potenza alle 9 e siamo qui dalle tre del mattino”, dice Pietro, un altro genitore in attesa di un maschietto di cinque anni. Benché nella vita faccia il carabiniere esprime tutto il suo sconcerto per il trattamento ricevuto e per la scelta di usare una caserma di polizia come luogo di custodia temporanea e incontro. “Non sappiamo ancora nulla. Tutto questo non è normale, qualcuno deve darci delle risposte”. Dopo diverse ore i genitori stessi finiscono su tre furgoni della Polizia diretti alla caserma.
La cronaca di questo calvario è importante. Sembra incredibile ma lo stesso copione si ripete da tempo, rovinando il momento dell’accoglienza, forse il più delicato dell’intero iter adottivo. La Boschi, fresca di delega, la scorsa settimana ha incontrato una delegazione di genitori in protesta ha speso parole rassicuranti. Ma l’ultimo episodio dimostra che il lifting non è bastato: anche stavolta il caos ha regnato sovrano. I bimbi da accogliere con premura sono finiti sui furgoni della polizia, stessa sorte ai genitori. Di criminale, però, c’era solo l’indelicatezza delle autorità.