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Al centro, a terra, nella calca dei profughi, c’è questa donna afghana, esausta. Svenuta. E i figli, intorno, che cercano di tirarla su: dei bambini di sei, sette anni, soli nella folla, spaventati, spersi. Disperati. E’ l’isola di Lesbos, è la Grecia. Perché questa è l’Europa, oggi. Giulio Piscitelli ha 35 anni, e fotografa i migranti da sempre. E ora che le sue foto sono diventate centinaia, migliaia, e iniziano a essere esposte in tutta Europa, tutte insieme, come qui a Dubrovnik, alla War Photo Limited, una delle migliori gallerie dei Balcani, colpisce anche solo semplicemente il numero dei paesi in cui è stato.

dubrovnik

Perché non sono le foto di un’emergenza, queste, le foto di una guerra, di uno sbarco, di un evento isolato, non sono la Vlora a Bari dopo il crollo dell’Albania: sono le foto di un mondo. Del nostro mondo: sono una finestra e uno specchio. E sono feroci. Perché non sono le foto assolutorie degli abbracci di chi è infine arrivato: sono la foto, invece, e ti si conficca dentro, di questa famiglia siriana, in Serbia, che cerca di riprendersi dai lacrimogeni della polizia. Con i loro vestiti logori, le loro povere cose, uno zaino e nient’altro, una bambina che piange, e la madre che la stringe, scossa, e il padre, con in braccio la figlia più piccola, bionda, bellissima, che guarda e non capisce, il padre che sembra dire: Abbiamo scampato anche questa. Come uno che sa che non è finita. La fuga, la paura. Il pericolo.

Non è finita. Perché questa, oggi, è l’Europa. L’Europa di Kos, delle stanze dismesse dell’hotel Captain Elias, fallito e occupato, l’Europa in cui si vive come nell’età della pietra, si dorme sull’erba, ci si lava in un fiume. Ci si riscalda intorno a un fuoco. O si muore, così, di freddo, di fame, di stenti. Per un uomo sulla luna, scriveva Pasolini, quanti regressi sulla terra: in questa Europa di uomini ridotti a bestie, in queste foto in cui non c’è un centimetro libero, un centimetro di aria, solo corpi, corpi, corpi, sudici, sudati, sdruciti, pigiati gli uni contro gli altri, senza più dignità, senza più identità, tutti uguali, corpi, solo cumuli di corpi, gli uni sugli altri, in fila per qualsiasi cosa, per un timbro, per un’impronta, per un po’ di zuppa, una coperta, qualsiasi cosa, per arrampicarsi su un treno già pieno mentre tentano di infilarsi dentro dal finestrino a Tovarnik, in Croazia, o a Patrasso, in Grecia, mentre tentano di nascondersi sotto un tir che si imbarca per l’Italia.

Umanità di scarto, ebrei del nostro tempo mentre camminano per i campi, completamente abbandonati a se stessi, mentre a Bogovadja, in Serbia, si cucinano un piatto di lenticchie, pomodori, cipolle – per terra, questo piatto troppo piccolo per le tante mani che gli si affollano intorno. No, queste non sono le foto dei salvataggi, dei naufraghi rifocillati, le foto dei bambini che sorridono in una casa nuova: perché poi, nel 2015, nell’anno delle frontiere aperte, l’Europa ha accettato 292.540 rifugiati, meno dei siriani di Istanbul: tra rifugiati e sfollati, oggi nel mondo sono in fuga 59,5 milioni di persone, 42.500 al giorno, un uomo ogni 122 – e quindi queste sono le foto della regola, non dell’eccezione: sono le foto delle cicatrici di Hassan, ad Atene, accoltellato dai neonazisti, sono le foto della solitudine, dello spaesamento di Mansour, fermo a un incrocio in una sera di pioggia, a Sofia, incerto sotto il suo cappuccio, mentre non sa bene dove andare. Mentre sullo sfondo brillano le luci della città.

Le luci e la musica della nostra vita. Pochi passi più in là, nell’ultima sala, altre foto ci ricordano da dove arrivano questi migranti a cui tiriamo lacrimogeni. Sono le foto delle guerre dei Balcani, la Bosnia, il Kosovo – foto che potrebbero essere di qualsiasi guerra, in realtà: di qualsiasi paese, qualsiasi città, perché pensiamo sempre che da noi non sarebbe possibile, che in Europa certe cose sono finite per sempre, e invece è possibile, è sempre possibile, come nell’iconica foto di Dubrovnik un minuto prima del primo bombardamento, deserta: gli uccelli che tutti insieme si alzano in volo. E subito dopo, foto di soldati che prendono a calci i morti, soldati in posa eleganti come stessero a una cerimonia mentre la città, alle loro spalle, brucia. Perché questa è la guerra. Ti sparano, e brindano.

Ti accoltellano, e gli altri, sullo sfondo, continuano a ballare. Perché questi non sono che corpi, per noi. Come bestie, corpi pigiati gli uni agli altri, ridotti a lavarsi in un fiume, riscaldarsi intorno a un fuoco. Solo corpi indistinti, senza un centimetro di aria: e al centro, un ragazzo che ti fissa.Perché questa è l’Europa, oggi. Questo sei tu. E un giorno ti chiederanno: E tu dov’eri, mentre si moriva sotto casa tua? Ti chiederanno: Ma davvero hai continuato a ballare?

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