L’ultima notizia è che il fondo sovrano dell’Arabia Saudita ha investito 3,5 miliardi di dollari in Uber, la società statunitense che ha inventato la app con cui chi ha bisogno di spostarsi può entrare in contatto con un autista. E Yasir Al Rumayyan, managing director del Saudi public investment fund, entrerà nel consiglio di amministrazione di una delle aziende simbolo della sharing economy. E’ un indizio della rivoluzione in atto nelle strategie dei veicoli di investimento pubblici che fanno capo ai grandi produttori di petrolio. Con i prezzi del barile sotto i 50 dollari e quelli delle commodity che crollano e l’aumento della volatilità azionaria, la tendenza prevalente consiste nel focalizzarsi sull’immobiliare, diversificare le fonti di introiti e aprirsi a capitali esteri, rivedere il rapporto con i gestori esterni. E in qualche caso nel dare maggior rilevanza a criteri di governance e sostenibilità.
Preqin, società di data intelligence nel settore degli investimenti, ha analizzato le prospettive di 74 tra i principali fondi sovrani del mondo. Dal suo ultimo rapporto emerge che mentre nel 2014 investivano nel real estate e nelle infrastrutture rispettivamente il 54 e il 57% dei fondi del panel, oggi entrambe le categorie sono arrivate al 62 per cento. Un trend importante, confermato dal presidente del Sovereign Wealth Fund Institute, Michael Maduell: “I fondi sovrani stanno cercando investimenti di lungo termine, dove possano bloccare i loro capitali e non doverli reinvestire continuamente”. Il valore degli asset è in crescita del 3,2% rispetto allo scorso anno, per un totale di oltre 6.500 miliardi di dollari. Sorridono i fondi non finanziati dalle commodity, che nel computo hanno visto incrementare i loro asset di 290 miliardi di dollari. Viceversa, i fondi sovrani legati agli idrocarburi hanno visto una perdita di 10 miliardi di dollari.
Il limitato calo degli asset dei fondi petroliferi rappresenta la sintesi di strategie diverse. Da una parte c’è il più grande fondo sovrano del mondo, il Government Pension Fund norvegese, che vale circa 870 miliardi di dollari e che lo scorso autunno ha deciso per la prima volta di ritirare parte degli investimenti per far fronte al deficit e alla crisi dei rifugiati. Fino a marzo Oslo aveva già utilizzato 2,5 miliardi di dollari, circa 20 miliardi di corone, ma prevede nel 2016 di tagliare 80 miliardi di corone, 10 miliardi di dollari. Una cifra che coincide con le perdite registrate nel primo trimestre, che ridurranno gli investimenti in equity per incrementare gli impieghi nel real estate dal 3 al 5%, con la possibilità accordata dal governo di spingersi fino al 7 per cento. Ma il fondo norvegese, azionista di oltre 9.000 aziende nel mondo, si sta distinguendo per una serie di politiche di stampo etico. La Norges Bank, che gestisce il fondo, punterà i riflettori sui salari eccessivamente alti dei vertici delle società in cui investe, opponendosi a ogni remunerazione che sia a un livello non appropriato. Inoltre, in vista delle assemblee delle petrolifere Chevron ed Exxon, che si sono tenute il 25 maggio, ha dichiarato che sosterrà ogni proposta per fare pressione sul management sui rischi connessi al cambiamento climatico. Da febbraio, inoltre, il fondo ha disinvestito in 52 società legate al business del carbone. E pochi giorni fa ha annunciato una class action contro Volkswagen.
Dall’altra parte, invece, ci sono i fondi del Golfo, che non fermano i propri investimenti, provando invece a convogliare risorse dall’estero. Degli ultimi giorni è l’acquisto di Porto Montenegro nella baia di Kotor da parte di Investment Corporation of Dubai mentre la Qatar Investment Authority starebbe per acquistare per 1 miliardo di dollari due alberghi negli Usa da Starwood, oltre a portare avanti a Londra, insieme al fondo olandese Apg e all’immobiliare Delancey, un programma da 4.000 appartamenti nella zona del villaggio olimpico: un affare da ben 2 miliardi. “Lo scorso anno la strategia era di tagliare la spesa, alzare le tasse e vendere asset, quest’anno è di raccogliere capitali”, ha dichiarato a Bloomberg Richard Segal, analista di Manulife Asset Management. Abu Dhabi ha già completato la raccolta di 5 miliardi di dollari, con una richiesta di 17,5 miliardi. Diverse le situazioni di Qatar e Arabia Saudita: la prima ha ricevuto un outlook negativo da parte di Moody’s, la seconda ha subìto ben tre downgrade da Standard and Poor’s.
E proprio a causa di un downgrade il Bahrain a febbraio aveva dovuto annullare il lancio di un’emissione da 750 milioni di dollari, poi riproposta con un taglio minore e tassi più alti. Riyad e Doha sperano invece che vada tutto liscio nelle proprie emissioni di 5 e 10 miliardi di dollari, per fronteggiare i crescenti deficit. Allarmanti sono le stime del Fmi, che vede nel 2021, per i sei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (ne fanno parte anche Bahrein, Emirati Arabi, Kuwait e Oman) e l’Algeria, un deficit a 900 miliardi di dollari. L’apertura dei sauditi ai capitali esteri, la prima dal 1991, segue la carenza di liquidità delle banche domestiche, motivo in più a spingere il principe Mohammed bin Salman a presentare Saudi Vision 2030, il programma che mira ad affrancare l’economia di Riyad dalla dipendenza dal petrolio. Il piano vedrà la nascita del fondo sovrano più imponente del mondo, con una dotazione di 2.000 miliardi di dollari, che proverranno dalla privatizzazione di una quota fino al 5% della petrolifera Saudi Aramco, e da asset fiscali, industriali e immobiliari.
Sebbene non petroliferi, anche i fondi sovrani dell’est e del sud-est asiatico hanno alzato il livello di attenzione negli ultimi mesi, anch’essi guardando a infrastrutture e real estate, oltre al private equity. Un segnale importante è stato l’apertura a New York di un ufficio da parte di China Investment Corporation, che qualche anno fa aveva invece scelto Toronto, più in linea ai business energetici e delle risorse naturali. Intanto negli ultimi giorni una dichiarazione di Roslyn Zhang, tra i vertici di CIC, ha scoperchiato un vaso di pandora nel panorama dei gestori. Zhang, criticando gli speculatori che nei mesi passati avevano scommesso contro lo yuan, si è interrogata pubblicamente sulla reale capacità di investimento degli hedge fund, e sull’opportunità di devolvere ai manager esterni il 2% del capitale amministrato e il 20% dei profitti. Il mutato contesto economico, infatti, ha cambiato i rapporti tra i consulenti e i fondi sovrani, che oggi, rispetto a qualche anno fa, hanno acquisito esperienza e consapevolezza negli investimenti iniziando a internalizzare una serie di servizi finora demandati all’esterno. Lo spiega il New Zealand Superannuation Fund, che cedendo alcuni rami di business, ha dichiarato pochi giorni fa di voler seguire una nuova strategia fatta di “minori ma più profonde relazioni con i gestori”.
Economia
Fondi sovrani, con prezzi petrolio bassi la salvezza è il mattone. Rivoluzione in corso dalla Norvegia ai Paesi del Golfo
L'ultima notizia è che quello dell'Arabia Saudita ha puntato 3,5 miliardi su Uber. Secondo il rapporto della società di consulenza Preqin, nel 2015 il 62% dei maggiori veicoli di investimento pubblici ha puntato su real estate e infrastrutture. Ma le strategie in campo sono diverse. Oslo vuole ridurre i maxi stipendi dei manager delle aziende sostenute. I Paesi arabi comprano alberghi e complessi immobiliari
L’ultima notizia è che il fondo sovrano dell’Arabia Saudita ha investito 3,5 miliardi di dollari in Uber, la società statunitense che ha inventato la app con cui chi ha bisogno di spostarsi può entrare in contatto con un autista. E Yasir Al Rumayyan, managing director del Saudi public investment fund, entrerà nel consiglio di amministrazione di una delle aziende simbolo della sharing economy. E’ un indizio della rivoluzione in atto nelle strategie dei veicoli di investimento pubblici che fanno capo ai grandi produttori di petrolio. Con i prezzi del barile sotto i 50 dollari e quelli delle commodity che crollano e l’aumento della volatilità azionaria, la tendenza prevalente consiste nel focalizzarsi sull’immobiliare, diversificare le fonti di introiti e aprirsi a capitali esteri, rivedere il rapporto con i gestori esterni. E in qualche caso nel dare maggior rilevanza a criteri di governance e sostenibilità.
Preqin, società di data intelligence nel settore degli investimenti, ha analizzato le prospettive di 74 tra i principali fondi sovrani del mondo. Dal suo ultimo rapporto emerge che mentre nel 2014 investivano nel real estate e nelle infrastrutture rispettivamente il 54 e il 57% dei fondi del panel, oggi entrambe le categorie sono arrivate al 62 per cento. Un trend importante, confermato dal presidente del Sovereign Wealth Fund Institute, Michael Maduell: “I fondi sovrani stanno cercando investimenti di lungo termine, dove possano bloccare i loro capitali e non doverli reinvestire continuamente”. Il valore degli asset è in crescita del 3,2% rispetto allo scorso anno, per un totale di oltre 6.500 miliardi di dollari. Sorridono i fondi non finanziati dalle commodity, che nel computo hanno visto incrementare i loro asset di 290 miliardi di dollari. Viceversa, i fondi sovrani legati agli idrocarburi hanno visto una perdita di 10 miliardi di dollari.
Il limitato calo degli asset dei fondi petroliferi rappresenta la sintesi di strategie diverse. Da una parte c’è il più grande fondo sovrano del mondo, il Government Pension Fund norvegese, che vale circa 870 miliardi di dollari e che lo scorso autunno ha deciso per la prima volta di ritirare parte degli investimenti per far fronte al deficit e alla crisi dei rifugiati. Fino a marzo Oslo aveva già utilizzato 2,5 miliardi di dollari, circa 20 miliardi di corone, ma prevede nel 2016 di tagliare 80 miliardi di corone, 10 miliardi di dollari. Una cifra che coincide con le perdite registrate nel primo trimestre, che ridurranno gli investimenti in equity per incrementare gli impieghi nel real estate dal 3 al 5%, con la possibilità accordata dal governo di spingersi fino al 7 per cento. Ma il fondo norvegese, azionista di oltre 9.000 aziende nel mondo, si sta distinguendo per una serie di politiche di stampo etico. La Norges Bank, che gestisce il fondo, punterà i riflettori sui salari eccessivamente alti dei vertici delle società in cui investe, opponendosi a ogni remunerazione che sia a un livello non appropriato. Inoltre, in vista delle assemblee delle petrolifere Chevron ed Exxon, che si sono tenute il 25 maggio, ha dichiarato che sosterrà ogni proposta per fare pressione sul management sui rischi connessi al cambiamento climatico. Da febbraio, inoltre, il fondo ha disinvestito in 52 società legate al business del carbone. E pochi giorni fa ha annunciato una class action contro Volkswagen.
Dall’altra parte, invece, ci sono i fondi del Golfo, che non fermano i propri investimenti, provando invece a convogliare risorse dall’estero. Degli ultimi giorni è l’acquisto di Porto Montenegro nella baia di Kotor da parte di Investment Corporation of Dubai mentre la Qatar Investment Authority starebbe per acquistare per 1 miliardo di dollari due alberghi negli Usa da Starwood, oltre a portare avanti a Londra, insieme al fondo olandese Apg e all’immobiliare Delancey, un programma da 4.000 appartamenti nella zona del villaggio olimpico: un affare da ben 2 miliardi. “Lo scorso anno la strategia era di tagliare la spesa, alzare le tasse e vendere asset, quest’anno è di raccogliere capitali”, ha dichiarato a Bloomberg Richard Segal, analista di Manulife Asset Management. Abu Dhabi ha già completato la raccolta di 5 miliardi di dollari, con una richiesta di 17,5 miliardi. Diverse le situazioni di Qatar e Arabia Saudita: la prima ha ricevuto un outlook negativo da parte di Moody’s, la seconda ha subìto ben tre downgrade da Standard and Poor’s.
E proprio a causa di un downgrade il Bahrain a febbraio aveva dovuto annullare il lancio di un’emissione da 750 milioni di dollari, poi riproposta con un taglio minore e tassi più alti. Riyad e Doha sperano invece che vada tutto liscio nelle proprie emissioni di 5 e 10 miliardi di dollari, per fronteggiare i crescenti deficit. Allarmanti sono le stime del Fmi, che vede nel 2021, per i sei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (ne fanno parte anche Bahrein, Emirati Arabi, Kuwait e Oman) e l’Algeria, un deficit a 900 miliardi di dollari. L’apertura dei sauditi ai capitali esteri, la prima dal 1991, segue la carenza di liquidità delle banche domestiche, motivo in più a spingere il principe Mohammed bin Salman a presentare Saudi Vision 2030, il programma che mira ad affrancare l’economia di Riyad dalla dipendenza dal petrolio. Il piano vedrà la nascita del fondo sovrano più imponente del mondo, con una dotazione di 2.000 miliardi di dollari, che proverranno dalla privatizzazione di una quota fino al 5% della petrolifera Saudi Aramco, e da asset fiscali, industriali e immobiliari.
Sebbene non petroliferi, anche i fondi sovrani dell’est e del sud-est asiatico hanno alzato il livello di attenzione negli ultimi mesi, anch’essi guardando a infrastrutture e real estate, oltre al private equity. Un segnale importante è stato l’apertura a New York di un ufficio da parte di China Investment Corporation, che qualche anno fa aveva invece scelto Toronto, più in linea ai business energetici e delle risorse naturali. Intanto negli ultimi giorni una dichiarazione di Roslyn Zhang, tra i vertici di CIC, ha scoperchiato un vaso di pandora nel panorama dei gestori. Zhang, criticando gli speculatori che nei mesi passati avevano scommesso contro lo yuan, si è interrogata pubblicamente sulla reale capacità di investimento degli hedge fund, e sull’opportunità di devolvere ai manager esterni il 2% del capitale amministrato e il 20% dei profitti. Il mutato contesto economico, infatti, ha cambiato i rapporti tra i consulenti e i fondi sovrani, che oggi, rispetto a qualche anno fa, hanno acquisito esperienza e consapevolezza negli investimenti iniziando a internalizzare una serie di servizi finora demandati all’esterno. Lo spiega il New Zealand Superannuation Fund, che cedendo alcuni rami di business, ha dichiarato pochi giorni fa di voler seguire una nuova strategia fatta di “minori ma più profonde relazioni con i gestori”.
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Roma, 13 mar. (Adnkronos Salute) - Ail - Associazione italiana contro leucemie, linfomi e mieloma rinnova la storica campagna dedicata alle Uova di Pasqua, con l’obiettivo di unire ciò che è divenuto un simbolo dell’Associazione, il racconto delle storie dei pazienti e l’impegno sociale di Ail. E lancia la nuova campagna di comunicazione integrata 'Un Uovo per la Vita' dedicata all’iniziativa Uova di Pasqua, affidata a Lateral, Studio di Branding & Comunicazione guidato da Federica Bello e Francesco Fallisi, con la direzione creativa di Francesco Fallisi e Simona Angioni. L’iniziativa 'Uova di Pasqua Ail', in programma nei giorni 4, 5 e 6 aprile in tutta Italia, storico appuntamento con la solidarietà promosso dall’Associazione che da oltre 55 anni è al fianco dei pazienti ematologici e delle loro famiglie, viene realizzata da 32 anni grazie al contributo di migliaia di volontari e all’opera delle sue 83 sezioni Ail provinciali. La manifestazione ha permesso in tanti anni di sostenere e mettere in campo importanti progetti di Ricerca Scientifica e Assistenza e ha contribuito a far conoscere i rilevanti progressi e i risultati ottenuti nel trattamento dei tumori del sangue.
La campagna, che si articola su più media, ha la sua massima espressione nello storytelling dello spot video. Un film che attraverso una serie di ritratti emozionanti mostra il valore solidale che simboleggia l’Uovo di Pasqua Ail. Il momento più toccante si manifesta nel ritratto finale, che ritrae una paziente ematologica, sottolineando il significato profondo rappresentato dalla scelta di un Uovo di Pasqua Ail. "Per chi affronta un tumore del sangue, quest’uovo non è solo un simbolo pasquale, ma rappresenta la speranza e un futuro oltre la malattia" afferma Rita Smoljko, Responsabile Comunicazione Ail.
"Attraverso questa campagna - spiega Daniele Scarpaleggia, coordinatore del progetto - vogliamo trasmettere un messaggio di solidarietà e di vicinanza ai pazienti e alle loro famiglie. L’Uovo di Pasqua Ail è un piccolo grande gesto che può fare la differenza per chi sta affrontando un momento difficile". Ail - ricorda una nota - da oltre 55 anni mette al primo posto il paziente con tumore del sangue e il sostegno alla ricerca scientifica. I risultati negli studi scientifici e le terapie innovative sempre più efficaci e mirate, hanno determinato grandi miglioramenti nella diagnosi e nella cura dei pazienti ematologici, adulti e bambini.
Roma, 13 mar. (Adnkronos) - Findus, azienda attiva nel settore dei surgelati e parte del Gruppo Nomad Foods, annuncia il raggiungimento di un traguardo storico: il 100% dei suoi prodotti ittici proviene da pesca sostenibile certificata Msc (Marine Stewardship Council) e acquacoltura responsabile certificata Asc (Aquaculture Stewardship Council). Questo obiettivo, annunciato nel marzo del 2017, segna non solo il compimento di un percorso, ma anche l’inizio di un nuovo capitolo, consolidando il ruolo di Findus come leader del mercato del surgelato ittico, con circa 20mila tonnellate di prodotto, che equivale al 20% del comparto, per un valore totale di 290 milioni di euro.
“Siamo estremamente soddisfatti di questo importante risultato, frutto di un notevole impegno organizzativo ed economico. L’approvvigionamento di volumi importanti, come quelli sviluppati da Findus, l’ampiezza e la varietà del nostro portafoglio di prodotti ittici, che vanta oltre 20 diverse specie, ha richiesto un impegno significativo volto a coinvolgere, informare ed ingaggiare tutta la filiera, dai gruppi di pescatori alla lavorazione del pesce, dal confezionamento fino all’arrivo dei prodotti negli scaffali della Gdo. La salvaguardia della biodiversità marina è uno standard da perseguire collettivamente per tutelare i nostri mari e garantire una fonte di nutrimento sostenibile per le future generazioni - ha dichiarato Renato Roca, Country Manager di Findus Italia - Come leader di mercato, siamo consapevoli della nostra responsabilità e siamo orgogliosi di aver ispirato l’intero settore, raggiungendo l’obiettivo fissato nel 2017 e promuovendo costantemente un modello di sostenibilità condivisa. Questo non è un punto d’arrivo, ma una tappa che ci spinge a proseguire nel nostro impegno. Produrre cibo impattando meno sull’ambiente e tutelando le risorse naturali è la nostra sfida: ci impegniamo per un progresso costante e responsabile, affinché la sostenibilità diventi sempre più un valore condiviso da tutto il settore e dai consumatori”.
Un comparto, quello dell’ittico surgelato, che ha avuto un buon andamento: secondo Iias nel 2024 sono state consumate 95.955 tonnellate di pesce surgelato, con una crescita del 3,9% rispetto al 2023. Findus è la prima azienda leader di settore 100% certificata Msc e Asc. A dimostrazione dell’impatto concreto della scelta di Findus sul mercato di riferimento - fa notare l'azienda - il volume totale dei prodotti ittici certificati Msc in Italia è più che triplicato da quando l’azienda ha ottenuto la certificazione Msc, registrando una crescita del 170% tra il 2017/2018 e il 2023/2024. Se si considera in particolare la categoria dei surgelati, l’influenza sul mercato della certificazione di Findus è stata altrettanto rilevante: in questo segmento, il volume di prodotti ittici certificati Msc è più che raddoppiato, con una crescita del 92% nello stesso periodo.
A partire dalla prossima settimana, tutti i prodotti delle gamme Findus - oltre 60 referenze - porteranno quindi il marchio blu di pesca sostenibile Msc e quello verde di acquacoltura responsabile Asc.
La pesca sostenibile e certificata Msc deve soddisfare il rigoroso Standard di Marine Stewardship Council, la più importante organizzazione al mondo in tema di pesca sostenibile, che si fonda su tre princìpi: la pesca deve lasciare in mare abbastanza pesci per permettere loro di riprodursi, affinché l’attività possa proseguire nel tempo; deve essere effettuata in modo da minimizzare il suo impatto sull’ecosistema, consentendo alla flora e alla fauna marina di prosperare; deve essere gestita in modo da potersi adattare alle mutevoli condizioni ambientali, nel rispetto delle leggi vigenti.
Per quanto riguarda invece il marchio verde Asc, esso garantisce al consumatore che il prodotto ittico provenga da un allevamento certificato secondo lo Standard di Aquaculture Stewardship Council (Asc), un'organizzazione internazionale indipendente senza scopo di lucro che stabilisce requisiti rigorosi per l'acquacoltura responsabile, spronando i produttori ittici a minimizzarne l'impatto ambientale e sociale. I requisiti ambientali prevedono che l’allevamento minimizzi il suo impatto sugli ecosistemi locali, che tutti i mangimi per pesci siano completamente tracciabili e che i parametri dell'acqua, come i livelli di fosforo e ossigeno, siano misurati regolarmente per rimanere entro i limiti stabiliti. I requisiti sociali comprendono invece la tutela dei diritti dei lavoratori e il rispetto delle comunità locali. Infine, i requisiti di benessere animale, assicurano che gli animali siano trattati con il massimo rispetto lungo tutto il loro ciclo di vita.
Roma, 13 mar. (Adnkronos) - Findus, azienda attiva nel settore dei surgelati e parte del Gruppo Nomad Foods, annuncia il raggiungimento di un traguardo storico: il 100% dei suoi prodotti ittici proviene da pesca sostenibile certificata Msc (Marine Stewardship Council) e acquacoltura responsabile certificata Asc (Aquaculture Stewardship Council). Questo obiettivo, annunciato nel marzo del 2017, segna non solo il compimento di un percorso, ma anche l’inizio di un nuovo capitolo, consolidando il ruolo di Findus come leader del mercato del surgelato ittico, con circa 20mila tonnellate di prodotto, che equivale al 20% del comparto, per un valore totale di 290 milioni di euro.
“Siamo estremamente soddisfatti di questo importante risultato, frutto di un notevole impegno organizzativo ed economico. L’approvvigionamento di volumi importanti, come quelli sviluppati da Findus, l’ampiezza e la varietà del nostro portafoglio di prodotti ittici, che vanta oltre 20 diverse specie, ha richiesto un impegno significativo volto a coinvolgere, informare ed ingaggiare tutta la filiera, dai gruppi di pescatori alla lavorazione del pesce, dal confezionamento fino all’arrivo dei prodotti negli scaffali della Gdo. La salvaguardia della biodiversità marina è uno standard da perseguire collettivamente per tutelare i nostri mari e garantire una fonte di nutrimento sostenibile per le future generazioni - ha dichiarato Renato Roca, Country Manager di Findus Italia - Come leader di mercato, siamo consapevoli della nostra responsabilità e siamo orgogliosi di aver ispirato l’intero settore, raggiungendo l’obiettivo fissato nel 2017 e promuovendo costantemente un modello di sostenibilità condivisa. Questo non è un punto d’arrivo, ma una tappa che ci spinge a proseguire nel nostro impegno. Produrre cibo impattando meno sull’ambiente e tutelando le risorse naturali è la nostra sfida: ci impegniamo per un progresso costante e responsabile, affinché la sostenibilità diventi sempre più un valore condiviso da tutto il settore e dai consumatori”.
Un comparto, quello dell’ittico surgelato, che ha avuto un buon andamento: secondo Iias nel 2024 sono state consumate 95.955 tonnellate di pesce surgelato, con una crescita del 3,9% rispetto al 2023. Findus è la prima azienda leader di settore 100% certificata Msc e Asc. A dimostrazione dell’impatto concreto della scelta di Findus sul mercato di riferimento - fa notare l'azienda - il volume totale dei prodotti ittici certificati Msc in Italia è più che triplicato da quando l’azienda ha ottenuto la certificazione Msc, registrando una crescita del 170% tra il 2017/2018 e il 2023/2024. Se si considera in particolare la categoria dei surgelati, l’influenza sul mercato della certificazione di Findus è stata altrettanto rilevante: in questo segmento, il volume di prodotti ittici certificati Msc è più che raddoppiato, con una crescita del 92% nello stesso periodo.
A partire dalla prossima settimana, tutti i prodotti delle gamme Findus - oltre 60 referenze - porteranno quindi il marchio blu di pesca sostenibile Msc e quello verde di acquacoltura responsabile Asc.
La pesca sostenibile e certificata Msc deve soddisfare il rigoroso Standard di Marine Stewardship Council, la più importante organizzazione al mondo in tema di pesca sostenibile, che si fonda su tre princìpi: la pesca deve lasciare in mare abbastanza pesci per permettere loro di riprodursi, affinché l’attività possa proseguire nel tempo; deve essere effettuata in modo da minimizzare il suo impatto sull’ecosistema, consentendo alla flora e alla fauna marina di prosperare; deve essere gestita in modo da potersi adattare alle mutevoli condizioni ambientali, nel rispetto delle leggi vigenti.
Per quanto riguarda invece il marchio verde Asc, esso garantisce al consumatore che il prodotto ittico provenga da un allevamento certificato secondo lo Standard di Aquaculture Stewardship Council (Asc), un'organizzazione internazionale indipendente senza scopo di lucro che stabilisce requisiti rigorosi per l'acquacoltura responsabile, spronando i produttori ittici a minimizzarne l'impatto ambientale e sociale. I requisiti ambientali prevedono che l’allevamento minimizzi il suo impatto sugli ecosistemi locali, che tutti i mangimi per pesci siano completamente tracciabili e che i parametri dell'acqua, come i livelli di fosforo e ossigeno, siano misurati regolarmente per rimanere entro i limiti stabiliti. I requisiti sociali comprendono invece la tutela dei diritti dei lavoratori e il rispetto delle comunità locali. Infine, i requisiti di benessere animale, assicurano che gli animali siano trattati con il massimo rispetto lungo tutto il loro ciclo di vita.
Reggio Emilia, 13 mar. (Adnkronos/Labitalia) - "Dai 2,2 miliardi di metri cubi che vengono consumati oggi a livello mondiale si arriverà ad un consumo di 3,2 miliardi di metri cubi e in questo giocherà una chiave sempre più importante il riciclo, quindi dobbiamo essere bravi a cercare di sostituire ove possibile materiale di legno vergine con materiale riciclato". A dirlo Massimiliano Bedogna, presidente di Conlegno, che ha aperto i lavori degli stati generali delle aziende attive nella riparazione, riutilizzo e gestione dei pallet a Gattatico di Reggio Emilia.
"Nel cospetto europeo siamo tra i sistemi più più evoluti, abbiamo un consorzio come Rilegno che ha una raccolta capillare molto importante del fine vita dell'imballaggio in legno e abbiamo anche delle industrie che trasformano per quanto riguarda l'imballaggio il fine vita del legno da imballaggio in prodotti riciclati, quindi io direi che la strada è tracciata; ovviamente non è sufficiente però dobbiamo spingere affinché si trovi sempre di più un compromesso tra l'economia e la sostenibilità affinché entrambe possano giocare un ruolo determinante per il futuro del nostro paese", ha concluso Bedogna
Reggio Emilia, 13 mar. (Adnkronos/Labitalia) - "Dai 2,2 miliardi di metri cubi che vengono consumati oggi a livello mondiale si arriverà ad un consumo di 3,2 miliardi di metri cubi e in questo giocherà una chiave sempre più importante il riciclo, quindi dobbiamo essere bravi a cercare di sostituire ove possibile materiale di legno vergine con materiale riciclato". A dirlo Massimiliano Bedogna, presidente di Conlegno, che ha aperto i lavori degli stati generali delle aziende attive nella riparazione, riutilizzo e gestione dei pallet a Gattatico di Reggio Emilia.
"Nel cospetto europeo siamo tra i sistemi più più evoluti, abbiamo un consorzio come Rilegno che ha una raccolta capillare molto importante del fine vita dell'imballaggio in legno e abbiamo anche delle industrie che trasformano per quanto riguarda l'imballaggio il fine vita del legno da imballaggio in prodotti riciclati, quindi io direi che la strada è tracciata; ovviamente non è sufficiente però dobbiamo spingere affinché si trovi sempre di più un compromesso tra l'economia e la sostenibilità affinché entrambe possano giocare un ruolo determinante per il futuro del nostro paese", ha concluso Bedogna
Gaza, 13 mar. (Adnkronos/Afp) - "Il rapporto delle Nazioni Unite sugli atti di genocidio contro il popolo palestinese conferma ciò che è accaduto sul terreno: un genocidio e la violazione di tutti i principi umanitari e legali". Lo ha detto all'Afp il portavoce del movimento islamico, Hazem Qassem.
Roma, 13 mar. - (Adnkronos) - Il Premio Film Impresa è pronto a tornare per il terzo anno consecutivo. La conferenza stampa di presentazione avrà luogo il 17 marzo, alle 11, alla Casa del Cinema di Roma a Villa Borghese. Il Premio - la cui terza edizione si terrà il 9, 10 e 11 aprile sempre alla Casa del Cinema - è un’iniziativa ideata e realizzata da Unindustria con il supporto di Confindustria. Divenuto ormai un vero hub culturale e luogo d’incontro di riferimento, il Premio ha l’obiettivo di valorizzare, esaltare e comunicare i valori dell’impresa e delle persone che vi lavorano. Creatività, visione, coraggio, tradizione, appartenenza al territorio, innovazione e sostenibilità sono i protagonisti dei prodotti audiovisivi, dei cortometraggi e dei mediometraggi candidati che saranno selezionati da una giuria presieduta quest’anno da Caterina Caselli.
Alla conferenza stampa di lancio, che annuncerà i nomi di tutti i componenti della giuria e anche il dettaglio del programma degli eventi del Pfi, prenderanno parte il presidente del Premio Film Impresa Giampaolo Letta, il presidente di Unindustria Giuseppe Biazzo, il direttore artistico del Premio Mario Sesti e la presidente di Giuria Caterina Caselli.
Parteciperanno inoltre i rappresentanti delle aziende partner, e interverrà anche Lorenza Lei, responsabile Cinema e Audiovisivo della Regione Lazio. La terza edizione del Premio Film Impresa si avvale del patrocinio di Regione Lazio, Roma Capitale e Rai Teche, e della collaborazione di Confindustria, Anica, Una e Fondazione Cinema per Roma. L'iniziativa è realizzata in partnership con Almaviva, Edison Next, Umana e UniCredit, e con il supporto tecnico di Spencer & Lewis, D-Hub Studios, Ega e Tecnoconference Europe. Media partner dell'evento sono Il Messaggero, Prima Comunicazione e Adnkronos.