A Sessa Aurunca il sito (all'aperto) in cui viene stoccato lo scarto del petrolio è al centro di una disputa decennale. Per le associazioni ambientaliste ci sono stati "25 anni di irregolarità" tra autorizzazioni parziali, ordini di demolizione da parte del Comune e rimpalli di competenze territoriali. Per l'azienda è tutto a norma di legge. Il 18 dicembre scorso, però, un decreto del ministero dello Sviluppo economico ha regolarizzato tutto, a favore dell'imprenditore accusato di inquinare
Si chiama pet coke. È lo scarto dell’oro nero. Prima era un rifiuto tossico, poi è diventato una risorsa. Inquinante. A Sessa Aurunca, Caserta, è al centro di una polemica. Per via del deposito lungo la statale Appia, in località Cancello, che da anni è al centro di una disputa tra ambientalisti e Interport srl. Per le associazioni e il Comune è abusivo. Per Regione e proprietario è tutto regolare. Una battaglia a colpi di carte bollate iniziata nel 1991 e finita, forse, il 18 dicembre scorso. Quando il ministero dello Sviluppo economico all’epoca guidato da Federica Guidi con apposito decreto ha autorizzato a ridurre la capacità di stoccaggio del deposito, legittimando le attività e, secondo le associazioni, “mettendo una toppa a 25 anni di irregolarità” tra autorizzazioni parziali, ordini di demolizione e rimpalli di competenze territoriali.
LE DENUNCE DEGLI AMBIENTALISTI – Legambiente denuncia da anni (anche alla Commissione Ue) lo “stoccaggio a cielo aperto e il trasporto con livelli inadeguati di prevenzione dell’inquinamento”, il tutto in mancanza di Valutazione di impatto ambientale e di titolo edilizio, in un’area agricola. Vicina al fiume Garigliano, a due passi da campi a coltivazione intensiva, pascoli e allevamenti di bufale. Chiede di far luce sulla vicenda anche la portavoce dell’Assemblea Popolare del Golfo di Gaeta, Paola Villa: “Il materiale per decenni è stato disperso lungo la strada, prima dell’entrata in vigore di un regolamento, mai rispettato fino in fondo, che impone una serie di obblighi sul trasporto a bordo dei camion”. L’ultima interrogazione è dei giorni scorsi. L’ha firmata Vincenzo Viglione (consigliere regionale M5S e membro della Commissione Ambiente) ed è diretta ai vertici della Regione.
CHE COS’È IL PET COKE – Il sospetto è che per molti anni si siano chiusi gli occhi sull’attività della Interport (che fa capo a Intergroup) presieduta da Nicola Di Sarno, per il quale a marzo scorso è stato chiesto il rinvio a giudizio con le accuse di corruzione e concorso in una serie di reati ambientali. Sessa Aurunca non c’entra: l’inchiesta è quella sui presunti trattamenti di favore tra pubblico e privato al porto di Gaeta. Il gip deciderà il 13 giugno. Fatto sta che proprio dal porto di Gaeta arriva il pet coke. In Italia fino a qualche anno fa era vietato utilizzarlo come combustibile, perché considerato scarto tossico. Poi nel 2002 il governo Berlusconi cambia le carte in tavola. Utilizzato soprattutto nei cementifici, è un carbone ottenuto durante la distillazione del petrolio ad alta concentrazione di zolfo e metalli pesanti, alcuni dei quali cancerogeni.
IL DEPOSITO E I VIZI DI FORMA – A Sessa Aurunca tutto inizia nel 1991, quando il sindaco rilascia un’autorizzazione sanitaria a Di Sarno per scarico e deposito di carbone, secondo la normativa vigente, ovvero la ‘Disciplina su produzione e vendita di alimenti e bevande’. Per Giulia Casella, presidente del locale circolo Legambiente, nella concessione ci sono tre vizi di forma. “Il carbone non è pet coke (all’epoca classificato come scarto tossico)” spiega a ilfattoquotidiano.it. E neppure è sostanza alimentare o bevanda. Di più: “Il regolamento edilizio del 1972 non prevede l’attività in questione, avviata in zona agricola coltivata a pescheti e ortaggi, con un allevamento di bufale poco distante”. Il tutto a un centinaio di metri dal fiume Garigliano “le cui rive rientrano nel parco regionale ‘Roccamonfina-Foce del Garigliano’ e nella zona Sic”. Ma come ha fatto l’attività ad andare avanti fino a oggi? Con varie autorizzazioni: nel ’91 la licenza dell’Anas, poi diversi certificati di prevenzione incendi dei vigili del fuoco, nel 2008 il decreto della Regione per le emissioni in atmosfera e nel 2011 il via libera della Provincia per lo scarico delle acque. Prima dell’ordinanza del 15 gennaio 2004 della Corte di Giustizia Europea e del decreto legislativo 249 del 2012, questo residuo del petrolio non era considerato come prodotto energetico e, quindi, non era soggetto ad autorizzazione unica. Quindi questi documenti bastavano. Secondo Legambiente, però, restano delle carenze.
DENUNCE, ORDINANZE E RICORSI – Così nel 2014 invia alle Procure di Santa Maria Capua Vetere e di Cassino un esposto. Seguito da altre denunce e proteste sul territorio, dopo le quali “la società adotta diverse misure”. Il Comune, intanto, emette un’ordinanza di demolizione di alcuni immobili abusivi, rimessa in pristino e sospensione dell’attività, contro cui viene inoltrato ricorso al Tar. Nel 2015 palazzo di città chiede di nuovo di demolire le opere abusive. Si ricorre ancora. Ottenuta una sospensiva, la società riprende le attività dopo 8 mesi di chiusura.
LA RICHIESTA DELLA SOCIETÀ E LA LEVATA DI SCUDI – Poi il colpo di scena. La Interport chiede di essere autorizzata alla riduzione della capacità di stoccaggio: da 140mila a 97mila metri cubi. Giancarlo Chiavazzo e Michele Buonomo, responsabile scientifico e presidente di Legambiente Campania, sottolineano che “il deposito, pur rientrando in attività concernenti sostanze pericolose, non è stato incluso tra i siti potenzialmente contaminati dell’ex SIN Litorale Domizio Flegreo e Agro Aversano”. Viene convocata una conferenza dei servizi. Il Comune di Sessa Aurunca prende posizione: “Non è mai stata rilasciata un’autorizzazione che abbia determinato il cambio di destinazione urbanistica” e “la zona interessata è posta a confine con il SIC Fiume Garigliano, ricadendo in un’area a rischio alluvione”. Di novembre scorso una nota inviata al Mise dal capo del settore Ambiente e Assetto del Territorio del Comune, Pasquale Sarao. Testuale: “L’autorizzazione sarebbe una legittimazione ex post di immobili e modificazioni di destinazione d’uso del suolo abusivamente realizzati, costituendo un condono edilizio contrastante con principi costituzionali e con consolidati orientamenti di giurisprudenza”. Di più: non è ragionevole “il rilascio di un’autorizzazione alla riduzione di qualcosa che autorizzato non è mai stato”.
VERSO IL DECRETO – Con il decreto del 18 dicembre, il Mise autorizza la riduzione della capacità di stoccaggio del deposito. E, di fatto, sana tutto. Dal ministero nessuna risposta ufficiale, se non i documenti dell’istruttoria. In primis il parere della Regione. Che ha escluso la necessità della procedura di Via. Le ragioni? “Il deposito non interessa nessuna delle aree protette o della Rete Natura 2000 e presenta una ampia barriera vegetale realizzata per abbattere le eventuali emissioni sul lato rivolto verso il Fiume Garigliano” e inoltre “dalla riduzione di capacità del deposito non possono derivare rilevanti impatti negativi per l’ambiente”. L’esatto opposto di ciò che dice il Comune.
LE PROTESTE E IL NODO DELLA DESTINAZIONE D’USO – Ad aprile però Legambiente, Confagricoltura e Coldiretti Caserta inviano una nota al Mise, ricordando che il sito “è interamente incluso nell’area vincolata dal Piano provinciale (Ptcp) di Caserta adottato dalla Regione”. Che individua una zona di tutela ben più ampia delle aree di protezione comunitaria, dei SIC e dei siti Natura 2000, “includendo l’area in questione tra quelle inondabili”. Il decreto del Mise, tra l’altro, “costituisce – si legge – variante agli strumenti urbanistici e dei piani di gestione e tutela del territorio”. Ecco perché il Comune invita il Mise a chiarire se il decreto sancisce di fatto un cambio di destinazione d’uso dell’area: da agricola è diventata industriale?
L’AZIENDA: “IL SITO È ALL’AVANGUARDIA” – “Questa è un’azienda virtuosa che ha speso milioni per un sito all’avanguardia. Non siamo in zona agricola” spiega a ilfattoquotidiano.it il presidente di Interport Nicola Di Sarno. Che rispedisce al mittente tutte le accuse. La riduzione dello stoccaggio un escamotage per ottenere l’autorizzazione? “Non è vero”. La ragione alla base della richiesta? “Questo tipo di attività ha subìto negli ultimi anni un ridimensionamento pari al 60%: è stata un’esigenza di mercato nella prospettiva di una riconversione”. Il progetto è quello di un polo logistico che andrà a movimentare il pellet. “Abbiamo speso circa 10 milioni per dotare questo sito di tutte le attrezzature e abbiamo le autorizzazioni necessarie” dice Di Sarno. Che, in barba a polemiche e pareri negativi del Comune, potrà continuare a stoccare lo scarto di greggio. Per decreto ministeriale.