C’è, tra gli intellettuali, una sorta di scuorno a dichiarare pubblicamente un qualche interesse per certe forme etichettate dalla politica mainstream come ‘populiste‘. Vi sono segni, nella cultura di sinistra, di emancipazione dal riflesso atavico del centralismo democratico di cui parlava qualche giorno fa Sabrina Ferilli quando diceva di voler votare Virginia Raggi a Roma disobbedendo al Pd. Del resto, che quella riflessione promani dalla nota attrice e non dagli intellettuali italiani è un segno della fatica che ha sempre fatto la categoria ad avere un ruolo pubblico non dico parresiastico (dire ‘la verità in pubblico’), ma quanto meno critico, di formulazione ‘scomoda’ e indigesta di domande e di dubbi.
Occorre, stando in un club di gentiluomini, non far cadere il monocolo a nessuno. Miseria e nobiltà della politica: i comunisti, che avevano subito questa discriminazione (i barbari, i sovversivi, i pericolosi) si sono paradossalmente costruiti una retorica aristocratica fondata per lo più sulla cosiddetta egemonia culturale. Il sogno edenico di purezza, per quanto messo infine in crisi dallo stesso Berlinguer nella celeberrima intervista sulla questione morale a Scalfari nel 1981, passava anche attraverso la cultura. Un movimento che ha raccolto, nel Nordest, una fetta dell’eredità elettorale del Pci, la Lega Nord, non ha invece mai avuto alcuna intenzione di legarsi agli intellettuali, di produrre ideologie. Anzi, l’essere ‘barbari’ e l’essere un po’ (tanto) di destra e un po’ (poco, o meglio niente: ma la trasversalità serviva a incassare voti) di sinistra richiedeva che Bossi si presentasse – e non gli è mai riuscito difficile – come il rozzo tribuno piuttosto che come il fine politico che si circonda di consiglieri. Ne fece le spese Gianfranco Miglio, definito dal Senatur “una scoreggia nello spazio”. È noto poi il peso che presso Berlusconi ebbero persone come Vertone, Colletti, Melograni e altri: nessuno.
Questa lontananza della politica dal mondo culturale è almeno da due o tre decenni un tratto vieppiù distintivo del contesto italiano. Complice anche una certa disillusione sul proprio ruolo, i teorici si sono rifugiati nello studio; mentre d’altro canto la loro figura è con sempre maggiore veemenza stata fatta bersaglio della sprezzante critica dei leader che volevano rappresentarsi come coloro che decidono, lasciando la discussione e il dibattito a chi avesse tempo da perdere in ‘sofismi’, a chi volesse solo ‘fare filosofia’: Berlusconi appunto, ma prima di lui Craxi (e prima ancora quell’altro, che non ha certo mai avuto simpatia per i professori e per gli intellettuali). Anche il Pd con gli intellettuali sembra aver litigato, dal momento che essi sono per Renzi più o meno dei parrucconi, e la cultura è un altro bersaglio della disintermediazione renziana.
Il M5S, movimento relativamente giovane, rappresentato dagli avversari come un manipolo di Unni, non si è in verità ancora posto seriamente il problema. Certo la penuria di intellettuali pesa, e se pure essa viene percepita come un elemento di vantaggio (una certa libertà di manovra, scevri da gabbie d’acciaio ideologiche) è invece una debolezza. Quelle gabbie non sono più possibili né auspicabili, ma una riflessione che metta in circolo idee e discussioni per pensare criticamente (il che vuol dire senza dogmatismi) la crisi della politica moderna, ovvero la crisi della democrazia della rappresentanza e della sovranità, sarebbe vitale per la politica. Servirebbe a fare un po’ di chiarezza, se chiarezza si vuole fare.
Per adesso, invece, vige un certo conformismo, che porta alla stigmatizzazione di alcune posizioni, senza volerle discutere nel merito. Prima fra tutte, come si diceva, la categoria di populismo, che assomiglia alla notte in cui tutte le vacche sono nere. E che denota una certa diffidenza nei confronti non del populismo stesso (qualsiasi cosa esso sia), ma del popolo, inteso come ‘populace’, plebe. Del resto non si vedono all’orizzonte, salvo sporadiche eccezioni, né un Ernesto Laclau né una Chantal Mouffe né uno Jacques Rancière italiani, per citare alcuni filosofi che hanno messo in questione il significato spregiativo di ‘populismo’ e la sua natura fondamentalmente di destra. Ragionare di queste cose, così come ragionare della tenuta di una categoria che mischia insieme Syriza, Podemos, Cinque Stelle, Trump e chi più ne ha più ne metta, significa rischiare di venire bollati come populisti, cosa da cui i più si guardano bene. E forse anche questo articolo, che invita a uscire dall’angolo per discutere insieme senza temere fatwa, verrà preso per una difesa – horribile dictu – del populismo.