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Muhammad Ali, addio a una vera icona pop: al bar con Malcom X, un “pugno per stendere” i Beatles e poi con i ragazzi dei quartieri poveri

La vita di Muhammad Ali è stata un film, tra neorealismo, commedia e dramma. Un lungo racconto per immagini, parole, slogan, strofe cantilenate. Ali è stato il primo pugile a crearsi un’immagine pubblica, smargiasso tra i smargiassi, picchiatore tra i picchiatori, per aprire il match e srotolarlo oltre al piano, poi vittorioso e travolgente, del ring. Racchiudeva in sé l’ammirazione per il gesto atletico delle classi alte e il senso di rivalsa delle classi subalterne

di Davide Turrini
Muhammad Ali, addio a una vera icona pop: al bar con Malcom X, un “pugno per stendere” i Beatles e poi con i ragazzi dei quartieri poveri

Float like a butterfly sting like a bee”. La vita di Muhammad Ali è stata un film, tra neorealismo, commedia e dramma. Un lungo racconto per immagini, parole, slogan, strofe cantilenate. Ali è stato il primo pugile a crearsi un’immagine pubblica, smargiasso tra gli smargiassi, picchiatore tra i picchiatori, per aprire il match e srotolarlo oltre al piano, poi vittorioso e travolgente, del ring. Di Cassius Clay ci si attendeva sempre una tirata, uno sfottò, una presa in giro pesante, contro l’avversario prima ancora di indossare i guantoni. Ad immortalare l’evento, la continua epifania del pugile che urlava, insultava, e provocava, spesso politicamente, mai volgarmente, ci pensarono all’epoca fotografi, cineoperatori, e giornalisti. Non che la boxe negli Stati Uniti non fosse stata elevata a culto popolare, a trama sportiva del ribaltamento dei ruoli sociali, fin dagli anni venti, ma grazie alla preparazione spettacolare dell’incontro storico contro Johnny Liston nel ‘64, poi con l’evento globale a Kinshasa contro George Foreman nel ’74, Cassius Marcellus Clay Jr. divenne leggenda.

Ali non era però solo animale da ring. Attraversò a livello di immagine gli anni sessanta e i loro fermenti politici e culturali da protagonista e non da comparsa. Si fece fotografare, seguire e immortalare, tra gli altri, con Malcolm X al bancone di un bar, con i Beatles mentre li stende tutti e quattro in fila con un destro da paura, poi ancora gli scatti tra i ragazzini dei quartieri poveri delle grandi città della East Coast. Le smorfie prima e dopo gli incontri, il cappuccio della felpa tirato sulla testa durante le corse d’allenamento, Ali fu, oltretutto senza una grande fortuna commerciale e pubblicitaria, una vera icona pop che racchiudeva in sé l’ammirazione per il gesto atletico delle classi alte e il senso di rivalsa delle classi subalterne. Piuttosto curioso che di fronte ad un tale “attore” del suo tempo e della sua disciplina il cinema l’abbia come snobbato, mai approfondito, tenuto biograficamente di riserva. Nel 1977, quando Cassius Clay è già in parabola atleticamente discendente e compaiono le prime avvisaglie del Parkinson, è la Columbia Pictures a decidere di mettere in piedi un improbabile biopic optando proprio per un Ali su grande schermo interpretato dal vero Ali. Ernest Borgnine diventa lo storico allenatore Angelo Dundee, James Earl Jone sé Malcolm X, e nel cast ci sono pure Robert Duvall e Ben Johnson. La regia è del pallido Tom Grier e il respiro più che da “rumble in the jungle” è da telenovela brasiliana.

Nel 1996 Leon Gast, documentarista che di solito filmava concerti dal vivo dei grandi della musica statunitense, decise che la raccolta di filmati d’archivio sul megaconcerto del ’74 che precedette il match Ali vs. Foreman a Kinshasa (con gente del calibro di James Brown, B.B.King e Miriam Makeba) doveva arricchirsi, anzi sbilanciarsi sulla raccolta di altri documenti, interviste, spezzoni, stralci amatoriali dell’incontro di pugilato e della sua preparazione. Il film finisce per intitolarsi Quando eravamo re e vince l’Oscar nel 1997 come miglior documentario. L’attesa prolungata per il match dovuta alla ferita di Foreman, permise a chi stava attorno ad Cassius Clay, tra reporter, amici e giornalisti, di costruire e creare il monumento Ali: personalità, forza e carattere lo resero una sorta di profeta della liberazione del popolo dello Zaire. Gast mise insieme con garbo e robustezza l’epopea del mito e lo consegnò alla storia.

Infine tra decine di pugili bianchi che diventano personaggi del cinema (Rocky, Jake LaMotta) ecco il più anni ottanta dei registi hollywoodiani toccò a Michael Mann prendere in consegna l’elettrizzante consacrazione definitiva della leggenda. Ali (2001) è un capolavoro di risolutezza e grazia formale, una sinfonia ritmata a colpi di saltelli sulla corda d’allenamento e di busto che schiva i colpi della retorica e dell’ovvietà. Ad interpretare Cassius Clay c’è un mimetico Will Smith, monumentale, stratosferico, impagabile (in lingua originale ovviamente), a riprodurre sleghi e intemperanze verbali dell’atleta che sconvolse il mondo della boxe. Sceneggiato da Stephen J. Rivele, Christopher Wilkinson ed Eric Roth il film di Mann s’immerge nella vita di Ali tra il ’64 e il ’74 mescolando umanità e politicizzazione dell’uomo, forza fisica, prepotenza e foga d’atleta, e donandogli quel ritratto fondamentale di parte importante della storia afroamericana che meritava da tempo. Tra i comprimari un black power che annovera Mario Van Peebles nei panni di Malcolm X; la ribelle Jada Pinkett Smith in quelli di Sonji Roi; Jamie Foxx in quelli del folle “cornerman” di Ali, Bundini; Jeffrey Wright in quelli di Howard Bingham, il fotografo che seguì Alì dal ’64, primo fotografo nero a diventare famoso per i suoi scatti sulle riviste Usa. Basta seguire i titoli di testa del film, una sorta di concentrato poetico e storico, biografico e intellettuale, del protagonista, modulato sulle note di Bring it on home to me cantate da Sam Cooke/David Elliott. Se non li avete mai visti, guardateli qui e amerete film e Cassius Clay come mai vi è capitato. Alì boma ye forever.

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