Il giudice di Trapani cita l'articolo 21 della Costituzione sulla libertà di stampa. Il cronista, già collaboratore del Fatto, era stato citato dalla moglie del defunto padrino Mariano Agate. Il pm aveva chiesto la condanna: "La tutela della dignità umana vale anche per un signore della morte"
Un giornalista può apostrofare come «un gran bel pezzo di merda» un mafioso. A stabilirlo è stato il Tribunale di Trapani che ha assolto Rino Giacalone – già collaboratore del Fatto Quotidiano e noto per la sua attività in Libera – dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa. La sentenza è stata emessa dal giudice monocratico Gianluigi Visco, le motivazioni saranno depositate entro 15 giorni, ma nel dispositivo viene espressamente citato l’articolo 21 della Costituzione che garantisce la libertà di informazione. Il processo era scaturito dalle denunce di Rosa Pace, vedova di Mariano Agate, in seguito ad un articolo pubblicato su Malitalia.it in cui veniva ricostruito il profilo criminale del marito, morto per cause naturali nell’aprile 2013, a 73 anni.
Agate è stato uno dei pezzi da novanta di Cosa Nostra, ritenuto uno degli strateghi del traffico e della raffinazione di sostenze stupefacenti, condannato per l’omicidio del magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto. Agate è stato condannato per le stragi del 1993 e per il fallito attentato a Maurizio Costanzo nel 1994. Era tra gli iscritti alla loggia massonica Iside 2, sorta all’interno del circolo Scontrino ed assieme al figlio Epifanio nel 2003 fa coinvolto nell’operazione Igres. Fu lui a mandare a dire a Mauro Rostagno di «non dire minchiate» e di lui l’ex capo della squadra mobile Giuseppe Linares, disse: «Se Agate fosse ancora vivo, Messina Denaro sarebbe meno importante». Dopo la morte, il Questore di Trapani aveva disposto il divieto ai funerali pubblici mentre il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero a quelli religiosi. In quell’occasione Rosa Pace disse di essere stata esposta ad «un’ingiusta esibizione giustizialista».
«La morte di Agate – ha detto durante la requisitoria il pm Franco Belvisi – è arrivata al termine di una malattia naturale, non di un fatto criminale, ma per la legge è stato indiscutibilmente un signore della morte. Il nodo però è un altro: la tutela della dignità umana, vale anche per il diritto di tutti i consociati ad un organizzazione criminale, o hanno diritto a delle tutele inferiori?». Il magistrato ha citato una serie di sentenze della Corte di Cassazione, in cui si legge che «certamente ingiuriose sono tutte quelle locuzioni in cui si disumanizza un soggetto, compreso il paragone ad un escremento». A fargli da contraltare i legali del giornalista che in più occasioni hanno richiamato l’articolo 21, aggiungendo come «quanto più è noto il soggetto in questione, tanto più ampia deve essere la latitudine di criticità». Gli avvocati hanno ricordato le origini della frase, coniata da Peppino Impastato (nella foto, la sua immagine con quella di Falcone a una manifestazione antimafia), «la mafia è una montagna di merda». «Qui si stabilisce se la mafia è una massa informe – hanno detto – o è una organizzazione composta da persone».
La vedova Rosa Pace, accompagnata dai figli, ha assitito alla sentenza. Corporatura minuta, caschetto biondo e giacca nera: la donna ha preferito non rilasciare dichiarazioni e le uniche parole sono della figlia Vita: «Tanta tristezza, abbiamo provato a credere nella giustizia». In aula anche un gruppo di attivisti di Libera e il fondatore don Luigi Ciotti che, dopo aver assistito all’intera udienza, ha lasciato il tribunale poco prima della sentenza di assoluzione.