Gomorra è una serie tv crime in cui manca quasi totalmente la controparte poliziesca. Ciò è singolare perché ovviamente non è una storia girata in un luogo esotico avvolto in un indefinito e nebuloso assetto istituzionale. Siamo alle porte di una delle città più grandi e più importanti d’Europa. E qui, gli sceneggiatori offrono una rappresentazione dei fatti che trasuda una pesante denuncia di impotenza dello Stato in tutti i suoi reticoli. Una sorta di bolla galleggiante in cui avviene di tutto, nell’indifferenza generale. Esecuzioni alla luce del giorno, gruppi criminali che mettono i propri rivali agli arresti “di quartiere”, disponendo anche dei mezzi di controllo e implementazione dell’ordinanza criminale, operazioni paramilitari per dare l’assalto ad interi palazzi (con tanto di sequestro di inquilini all’interno di van), gente che di notte entra nei cimiteri e si ricava un loculo last minute dissotterrando i morti.

L’originalità non sta tanto nel fatto che i buoni non ci siano, e che il copione sia tenuto in piedi da cattivi che affrontano altri cattivi nella lotta per il potere. Di questo è piena la storia del cinema. Ma piuttosto nella peculiarità di gruppi antagonisti di cattivi che operano indisturbati in una zona franca in cui tutto è possibile. E chiunque si trovi a vivere in questi confini del possibile viene trascinato in un vortice di indicibile violenza. Innocenti, complici, brave persone, e quelli disposti a reggere il gioco. In questo senso Gomorra rappresenta un’evoluzione drammatica anche rispetto all’altra serie di culto che l’ha preceduta, Romanzo Criminale. Nella saga della banda della Magliana, i protagonisti erano altrettanto cattivi, anzi forse un po’ meno.

Nella loro conquista di Roma si scontravano con altre formazioni criminali, locali e nazionali. Lì lo Stato c’era, il commissario di polizia era uno dei personaggi principali. E, puntualmente, doveva prendere atto della sua impotenza di fronte alla forza di una banda di criminali, molto caratterizzati nella loro rappresentazione, che sembrava potere qualsiasi cosa. Ma ciò avveniva perché, a un secondo e più oscuro livello statuale (rappresentato nella serie sotto forma di imprecisati servizi segreti), si stabilivano i confini entro cui i protagonisti criminali potevano prendersi gioco dei personaggi del livello statuale inferiore, quello che vive alla luce del giorno, il commissario e i poliziotti per intenderci.

Il racconto di questo dualismo tra piano alto e piano basso delle istituzioni pubbliche non era certamente rassicurante, ma dava l’idea di uno Stato che teneva la situazione sotto controllo, al punto da intervenire con disinvoltura per alterare l’assetto del gruppo criminale a proprio piacimento (senza aggiungere altro per non spoilerare chi non ha ancora visto e magari vuole farlo, Romanzo Criminale). In sostanza, la rappresentazione offerta dagli sceneggiatori di Romanzo Criminale, partendo dall’omonimo romanzo, è quella di un caos che esiste fintanto che lo Stato lo lascia esistere. In Gomorra invece gli sceneggiatori trasmettono la sensazione di una generale impotenza, o forse deliberato disinteresse, o un misto di entrambe le cose. E questo è uno dei modi più tragici in cui le sventure italiane siano state fin qui raccontate sul piccolo schermo.

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