Le regole sono semplici: le squadre sono formate da 7 giocatori (invece che 15), ma le dimensioni del campo restano identiche. La partita dura solo 20 minuti, al posto dei soliti 80. Il risultato è una disciplina che esalta al massimo le fasi dinamiche. Lo sport nacque in Scozia a fine Ottocento
Più veloce, più immediato, più spettacolare. È l’altro rugby, quello meno famoso, soprattutto in Italia dove non esiste grande tradizione (e neppure un vero campionato). Ma presto il rugby seven riporterà la palla ovale alle Olimpiadi, a quasi un secolo di distanza dall’ultima volta. E magari in futuro prenderà sempre più piede, anche nel nostro Paese e non solo nelle nazioni che vivono di rugby in ogni sua forma, come Nuova Zelanda, Isole del Pacifico e Regno Unito.
Il rugby seven sta al rugby tradizionale un po’ come il calcio 5 sta al calcio a undici. I principi del gioco sono gli stessi, ma si tratta di due sport molto differenti. Le regole sono semplici: le squadre sono formate da 7 giocatori (invece che 15), ma le dimensioni del campo restano identiche. Si allargano a dismisura gli spazi, dunque. In compenso si riducono i tempi: la partita dura solo 20 minuti, al posto dei soliti 80; due tempi da 10 ciascuno, più eventuale supplementare in caso di pareggio. L’importanza della mischia è molto ridimensionata: quella aperta praticamente non esiste (i palloni vengono contestati quasi solo in fase di placcaggio), in quella chiusa vengono impegnati solo tre uomini. Il risultato è una disciplina che riduce al minimo le fasi statiche, ed esalta quelle dinamiche insieme ai gesti tecnici e alle giocate. Meno lotta, più spettacolo, ritmi frenetici e tante emozioni. Ma l’obiettivo fondamentale era e resta andare in meta.
La palla ovale tornerà in questa veste alternativa alle Olimpiadi, per le stesse ragioni per cui è nato il rugby seven. Siamo in Scozia, a Melrose, fine Ottocento: la squadra del posto decide di organizzare una giornata di rugby per raccogliere fondi, con un torneo-esibizione fra più squadre. Impossibile giocarlo tutto in un sol giorno, però. E allora viene inventato questo rugby a ranghi e tempi ridotti. Il successo fu immediato a livello locale, e con questi stessi punti di forza il rugby 7s è riuscito nella seconda metà del Novecento a varcare i confini scozzesi, conquistare il mondo e adesso persino le Olimpiadi. Da anni il movimento spingeva per tornare ai Giochi, ma il rugby a 15 (con partite dure e logoranti e lunghe fasi di recupero per i giocatori) era incompatibile con il format olimpico: basti pensare che i Mondiali di rugby durano circa un mese e mezzo. Per questo a Rio de Janeiro 2016 ci sarà il rugby 7s.
Non l’Italia, perché da noi la disciplina è ancora molto indietro e la nazionale azzurra non si è qualificata. Il gotha del movimento sono le World Rugby Sevens Series, una serie di tornei internazionali organizzati e giocati dalle nazioni più forti del mondo (l’ultima edizione è andata alle Isole Fiji). La Coppa del mondo si disputa ogni 4 anni e nel 2013 è stata vinta dalla Nuova Zelanda (la prossima sarà nel 2018, proprio per fare spazio quest’anno alle Olimpiadi). L’Italia partecipa ai tornei europei senza grandi fortune, per il momento: da noi non esiste un vero campionato, si vive di tornei (ma questo anche altrove: solo l’Inghilterra ha una Premiership 7s). Soprattutto, non esistono giocatori di seven: quasi tutti o vengono dal rugby a 15 (ad esempio Simone Ragusi, utility di Treviso, che ha vestito le maglie di entrambe le nazionali), o comunque si alternano fra le due discipline. Per il futuro la Federazione punta a creare un gruppo specializzato e portare la disciplina nelle scuole. Anche perché l’interessa sta crescendo: i tornei si moltiplicano, e sono nati portali dedicati come rugbysette.it. Ora con le Olimpiadi tutto il mondo scoprirà il rugby 7s, dove lo spettacolo è sempre garantito.