“Guardare un film deve essere scioccante, vi toglierò tutte le certezze che avete e vi darò altro; io non faccio film, faccio esperienze“.
Genio e sregolatezza, istinto e follia, contemplazione e violenza, sporcizia e raffinatezza, durezza ed enigmaticità; prendere o lasciare, nell’universo di Nicolas Winding Refn non esistono vie di mezzo. Ancora una volta è lui al centro del dibattito e delle diatribe cinefile; diviso tra fischi ed applausi (non troppi, a dire il vero), tra elogi ed insulti, tra adoranti e detrattori. Qualche anno fa, il mondo, illuso di aver trovato un regista mainstream con un tocco autoriale, cadeva ai suoi piedi sotto i colpi di quello splendido noir cinetico dalle venature umaniste e sentimentali che era Drive, ignorando però il fatto che a questa mente affamata di visioni non è mai importato compiacere il pubblico e rientrare nei parametri prestabiliti di un cinema commerciale.
Di lì a poco infatti, dopo lo sguardo misantropicamente cinico e tendente all’astrazione di Solo Dio perdona, ecco sopraggiungere orde di spettatori delusi dalla sua deriva criptica estetizzante apparentemente priva di contenuti, incapaci di cogliere, secondo me, la vera anima del suo sguardo e del suo percorso artistico. Ma proviamo ad andare con ordine. Già dagli inizi della carriera, l’impatto visivo nel suo cinema ha avuto un’importanza capitale e, nonostante fosse ancora uno stile più sporco e grezzo, sin da subito erano chiari gli intenti di una poetica che nel corso del tempo arriverà a sublimare l’immagine come essenza della percezione. Refn costruisce da sempre favole a tinte dark mescolando, con un’innata capacità visionaria, il reale ed il surreale e trascinando lo spettatore in universi di non-luoghi atemporali.
Proprio questa sua grande attitudine nel manipolare gli spazi e rarefare i tempi, lo rende davvero uno dei registi più affascinanti ed intriganti del panorama cinematografico moderno e soprattutto un autore capace di avere un occhio sul passato per guardare costantemente al futuro. Anche in virtù di questo, la critica che lo vede accusato di essere un regista vuoto, attento solo alla confezione, trovo sia fondata su basi davvero labili, perché nella costruzione del suo linguaggio cinematografico non esiste alcun dualismo cartesiano; la forma è al tempo stesso contenuto e il movimento della macchina da presa, l’accostamento contrastante dei colori, il gioco continuo tra luci ed ombre, la cura minuziosa della messa in scena, la ricerca di quelle atmosfere inconfondibili, il lavoro sul montaggio e sul sonoro diventano i canali diretti per iniettare emozioni a cuore e cervello.
Certamente, dai tempi lontani di Pusher e Bleeder, il suo cinema ha attraversato vari generi modellandosi ed evolvendosi nella ricerca stilistica, ma al di là delle etichette, l’essenza più profonda del suo sguardo è rimasta radicata all’interno di un’identità forte e definita. L’uomo come espressione imperfetta della creazione, la violenza che esplode in esso con un’inarrestabile furia, l’amore tenero privato della sua vena romantica che intrappola in un limbo straniante, il tutto avvolto in un alone mistico danzante tra realtà e fantasia. Un cinema fatto di domande più che di risposte, di suggestioni dall’impatto dirompente più che di parole rassicuranti, un cinema che può certamente respingere ma che difficilmente lascerà indifferenti, generando sensazioni contrastanti e un’attrazione, almeno per quanto mi riguarda, irresistibile.
Ancora una volta, anche nel suo ultimo The Neon Demon, Refn continua a dimostrare di non conoscere la parola indulgenza, né verso se stesso né tantomeno nei confronti del suo pubblico e dei suoi personaggi, denotando sempre più una grandissima libertà espressiva e una fortissima personalità. In questa occasione, il più grande cambiamento che sembra balzare agli occhi è l’inedita attenzione verso il mondo femminile, anche se in realtà è una differenza molto più sottile di quanto possa sembrare, perché nonostante il suo cinema precedente fosse fortemente maschile e virile, molti dei suoi personaggi chiave nascondevano sempre profonde sfumature femminili.
In fondo, The Neon Demon non rappresenta che un ulteriore passo nel percorso di estremizzazione e radicalizzazione del linguaggio filmico iniziato con i toni grotteschi e parossistici di Bronson e proseguito con le atmosfere epiche ed ancestrali di un capolavoro come Valhalla Rising. La storia si svuota della sua ricercatezza, snodandosi in un flusso visivo di metafore e simbolismi di cui il corpo diventa assoluto protagonista e, proprio come nelle favole, si inizia a lavorare sugli archetipi, semplici ma incredibilmente efficaci. Qualsiasi idea di progressione narrativa viene a cadere, la cura nella ricerca dell’immagine e nella composizione dell’inquadratura si trasfigura nell’ideale di bellezza come elemento primordiale di perversione e successo, sempre in bilico tra sacro e profano.
Derive orrorifiche e spirituali prendono il sopravvento; sangue, necrofilia, sesso ed ossessioni irrompono sullo schermo e già alla prima visione si assiste ad un’esperienza in grado di marchiare addosso momenti indelibili. Il cinema di Refn è sicuramente debitore all’immaginario filmico di grandi maestri come Lynch, Jodorowsky, Melville, Mann, Hill, Ji-woo, ma lui è riuscito ad andare oltre le barriere del citazionismo e dei rimandi, amalgamando il tutto e imprimendo il proprio tratto metafisico ed astratto, fatalista e ineluttabile, pieno di sfumature sperimentali, che, nonostante i rischi e le spaccature, lo rende comunque unico, originale, audace e sempre riconoscibile. Trovare un diamante in un mare di vetro perdendosi tra mani danesi potrà risultare davvero perturbante.