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Thiago Motta, un ‘dieci’ poco amato. Ma tra i suoi predecessori ci ricordiamo solo Totti e Baggio

Di Matteo Moca per Crampi Sportivi

Uno dei fondatori di quella scienza un po’ occulta che è la numerologia, il filosofo Pitagora, quando creò una scuola tutta sua a Crotone, insegnò, tra le molte altre cose, anche il significato dei numeri. E così, tra i numeri importanti, il numero uno, Monade, era il principio primo di ogni cosa, il quattro, tetrade, rappresentava la giustizia e così via. Ma il numero che rappresentava la perfezione era il numero 10, detto Decade: era considerato il numero perfetto, perché per la scuola di Pitagora dieci era il numero dei pianeti. Era tanto importante da essere incarnato da una figura, il tetraktys, sulla quale gli allievi facevano giuramento di adesione alla scuola. Pare che la scuola pitagorica fosse stata fondata intorno al 500 a.C., e quindi l’importanza di questo numero ha una storia molto lunga, che però diventa breve se si considera il suo ruolo nel calcio, uno sport giovane di circa 200 anni.

Nel calcio il numero 10 rappresenta il centrocampista più avanzato, oppure la seconda punta; anche quando la scelta dei numeri è libera, il 10 rimane un vessillo della fantasia, dell’acume e della classe e, come ormai è noto, in questa spedizione azzurra diretta in Francia, questo pesante numero andrà sul groppone di Thiago Motta, mediano di rottura, ordine e quantità, e la scelta ha fatto molto discutere, proprio per tutta la storia che quel numero si porta dietro e per quei nomi cuciti sopra di esso. Eppure il caso di Thiago Motta non è il primo e probabilmente non sarà neanche l’ultimo, ed è forse un simbolo di quello che alcuni già hanno definito come “la decadenza del numero 10”, su cui ci sarebbe da fare un lungo discorso.

EUROPEI 1968 (ITALIA)
L’Europeo del 1968 si disputava tra quattro squadre che giocavano una semifinale ed una finale. Uscì vincitrice l’Italia che nella ripetizione della finale contro la Jugoslavia, vinse 2 a 0 grazie a Riva e Anastasi. Eravamo ancora nel pieno della numerazione di base, non esistevano nomi né sulle maglie né tantomeno numeri sui pantaloncini, e allora il numero 10 sarebbe dovuto andare ad uno come Mazzola o Riva; invece il 10 se lo prese Giacinto Facchetti, ruolo difensore, accreditato come uno dei primi terzini fluidificanti della storia del pallone, bandiera della Nazionale e dell’Inter. È difficile risalire alla genesi di questa storia e spiegarne il significato, anche perché il numero facchettiano per antonomasia è il numero 3, quello del terzino. Chissà, forse il rovesciamento del potere tanto agognato dalle rivoluzioni studentesche di quell’anno sortì un effetto, inaspettato.

MONDIALE 1978 (ARGENTINA)
In quello che fu il Mondiale della vergogna, quello delle madri di Plaza de Majo e del disvelamento delle efferatezze del regime dittatoriale, vinto dall’Argentina di sua signoria El flaco César Luis Menotti, il numero 10 italiano aveva di nuovo un particolare destinatario, il mediano Romeo Benetti, che nel 1974 indossava un più giusto numero 4. Per chi conosce il gioco di Benetti, sarà naturale notare come questo numero probabilmente si trovi nel momento di massimo stridore rispetto a chi lo indossa, perché Benetti, comunque uno dei migliori centrocampisti italiani dei ’70, era un giocatore grezzo e bruto. “Assassino!” gli urlavano in trasferta, per i suoi interventi killer di cui alcuni video danno ancora testimonianza (come l’entrata fuoritempo su Franco Liguori, o sul povero portiere Castellini). Come riportano le cronache del tempo, Benetti, definito dalla stampa un mostro, si fece crescere due folti baffoni e quel suo sguardo torvo divenne ancora più truce.

MONDIALE 1986 (MESSICO)
Il Mondiale di Messico ’86 fu il mondiale di Maradona e della magica Argentina che sconfisse, in una partita mozzafiato, la Germania Ovest di Rummenigge e Voller; fu il mondiale della mano de Dios e del coast to coast di Maradona, ma fu anche il Mondiale in cui il numero 10 della Nazionale Italiana lo indossò Salvatore Bagni, amico sì di Maradona, ma, evidentemente, non degno compagno di numerologia. Siamo tra il trionfo del 1982 e la gioia sfiorata di Usa ’94, un periodo di transizione certo, ma dove la Nazionale contava comunque qualche giocatore adatto al peso della maglia, come Conti ad esempio. E invece la numero 10 andò al mediano di fatica. Come mai Bearzot scelse lui? Lo ha detto lo stesso Bagni, con la sua solita simpatia: «In realtà all’epoca i numeri si sorteggiavano. Io non sentivo il peso di quella maglia, anzi ero contento perché potevo scambiarla. Platini quando ci eliminò agli ottavi venne da me e me la chiese: “Per il numero che c’è sulle spalle non per la qualità di chi la indossa” sottolineò».

EUROPEI 1988 (GERMANIA OVEST)
Ultimo capitolo italiano (perché dopo di lui e Berti nel ’90 arrivarono i nomi di Baggio, Del Piero e Totti) è quello dell’Europeo del 1988 in una Germania vicina alla riunificazione. A vestire la maglia numero 10 fu Luigi de Agostini, terzino della Juventus certo, ma con ben poca propensione alla fantasia o all’estro, nonostante un piede comunque educato. In quella squadra c’erano, tra gli altri, Mancini e Ancelotti, oppure Giannini, giocatori quindi ben più propensi alla giocata risolutoria. Così andò, con l’Italia che uscì contro l’Urss, e il numero che come terzino probabilmente gli spettava, quel 3 che già in bianconero indossava Cabrini, venne invece preso da un altro peso da novanta come lo Zio Beppe Bergomi.

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