Nel messaggio inviato in occasione della festa del Corpo della Polizia penitenziaria, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella parla della necessità di un “profondo rinnovamento del modello di detenzione”. Ha indubbiamente ragione. Il processo di cambiamento, cominciato a seguito della condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, non può fermarsi qui. Avremmo perso un’occasione storica per ripensare un modello penale e penitenziario che non ha funzionato, come i tassi elevatissimi di recidiva ci dimostrano inequivocabilmente.
Mattarella ha parlato dell’importanza del lavoro in carcere. Come si legge nell’ultimo rapporto sulle carceri di Antigone, solo il 29,73% del detenuti è impegnato lavorativamente. Di questi, solo il 15% è alle dipendenze di un datore di lavoro privato. 612 detenuti, dei 53.495 presenti alla fine del marzo scorso, sono impiegati in attività di tipo manifatturiero, 208 in attività agricole. La stragrande maggioranza lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, impiegata in attività domestiche del tutto dequalificate fin dai nomi stessi che lo svilente gergo carcerario dà a questi mestieri: il portavitto che distribuisce le vivande, lo scopino che tiene pulita la sezione, lo spesino che prende le ordinazioni della spesa, lo scrivano che aiuta i compagni a presentare i vari atti necessari per la sopravvivenza penitenziaria.
Il carcere ha sperimentato le prime e massime forme di lavoro atipico: chi lavora in carcere è occupato spesso per poche ore al giorno, per pochi giorni a settimana, per poche settimane al mese e guadagna in media 200 euro mensili. Quel 29,73% non riguarda dunque affatto persone impegnate a tempo pieno. Tutt’altro. Mattarella ha parlato anche dell’importanza dell’apertura alla società esterna. Un’apertura che non significa più pericoli bensì più sicurezza, visto che in coloro che scontano parte della pena in misura alternativa il tasso di recidiva cade in picchiata.
La sanzione penale deve diventare qualcosa di responsabilizzante, non di inutile e passivizzante. Ha ragione Mattarella: dobbiamo rinnovare profondamente il modello di detenzione. Ma anche il modello di pena in sé e per sé, che non può essere sempre e solo schiacciato sul carcere, come per troppo tempo è capitato. Oggi abbiamo una grande occasione: un disegno di legge che, quando il parlamento riuscirà ad approvarlo, permetterà di scrivere un nuovo ordinamento penitenziario, a oltre quarant’anni da quello attualmente vigente. Cogliamola. E anzi non fermiamoci qui. Dobbiamo mettere mano anche al codice penale, innanzitutto per ripensare la dannosa e insensata politica proibizionista sulle droghe.
Bravo Sergio Mattarella a festeggiare la polizia penitenziaria con parole che richiamano il compito più alto cui essa è chiamata, quello del rispetto del dettato costituzionale. Lo staff penitenziario merita rispetto e prestigio sociale. Troppo spesso allo staff penitenziario, anche nel recente passato, si è affidata una supplenza di ciò che la politica non ha fatto o non ha programmato. Non servono tuttavia più poliziotti. Ne abbiamo in numero sufficiente, tra i più alti percentualmente di tutta l’Europa. Servono invece più operatori sociali, più mediatori, più interpreti, più medici, più psicologi.