Alla fine è arrivata la tanto attesa marcia indietro. Ufficialmente “per evitare altre strumentalizzazioni e polemiche infondate che nuocerebbero all’intero impianto del disegno di legge” che contiene misure di contrasto alle intimidazioni verso gli amministratori pubblici. E così, dall’articolo 3 del provvedimento di cui è prima firmataria la senatrice del Partito democratico Doris Lo Moro, approvato in prima lettura da Palazzo Madama, è sparito qualsiasi riferimento all’inasprimento delle pene – da un terzo alla metà – previsto anche per l’articolo 595 del codice penale relativo alla diffamazione. Compresa quella a mezzo stampa. Una misura su cui sia le opposizioni, che pure in commissione Giustizia al Senato avevano votato a favore del testo (con l’eccezione dell’ex ministro Carlo Giovanardi), sia l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa italiana avevano alzato la voce parlando dell’ennesimo “tentativo di intimidire i giornalisti”. Circostanze che hanno costretto la compagine dem a tornare sui propri passi.
NIENTE DI STRUMENTALE – Il motivo? “L’articolo 3 del ddl”, ha spiegato nel corso del suo intervento il relatore del provvedimento, Giuseppe Cucca (Pd), “introduce l’articolo 339-bis del codice penale con cui si prevede un’aggravante qualora un certo tipo di reati sia commesso contro un amministratore locale a causa dell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio”. Ma “a seguito della sua formulazione – ha aggiunto il senatore dem – sono sorte ricostruzioni fuorvianti e strumentali, inesattezze e discussioni che, a mio parere, traggono origine da una lettura forse frettolosa e poco attenta del testo stesso”. Infatti, ha tenuto ancora a precisare Cucca, “l’aggravante deve avere una natura ritorsiva nei confronti dell’amministratore locale e quindi non ha nulla a che vedere con la comune diffamazione a mezzo stampa, che non viene contemplata assolutamente e resta regolata dalla normativa vigente”. Insomma, “per evitare altre strumentalizzazioni e polemiche infondate abbiamo deciso di togliere dal testo dell’articolo 3 anche il riferimento all’articolo 595 del codice penale e non vi sarà più alcun legame con il reato della diffamazione”. Anche perché “in commissione Giustizia è all’esame un testo che rivede l’intero istituto dalla diffamazione” stessa.
GRAN BEL PASTICCIO – Ma le cose stanno davvero così, come sostiene il senatore del Pd? Veramente le ricostruzioni sono state “fuorvianti e strumentali” al punto da costringere ad un così significativo cambio di rotta? Non proprio. A ilfattoquotidiano.it, nei giorni in cui le polemiche sull’argomento si facevano sempre più accese, l’avvocato Caterina Malavenda aveva spiegato che, così com’era scritta, la norma “non specifica, se non nel titolo del tutto ininfluente, che l’aumento di pena si applica solo se questi reati (fra i quali, appunto, la diffamazione, ndr) sono stati commessi per ritorsione nei confronti delle vittime”. Ecco perché il provvedimento in questione sembrava “punire con sanzioni più pesanti le diffamazioni commesse nei confronti degli amministratori locali e non solo, per ragioni connesse all’adempimento del loro mandato, funzioni o servizio”. Il “non solo” evocato dalla legale fa riferimento ai componenti di un corpo politico (compresi deputati e senatori), amministrativo o giudiziario, ovvero i magistrati, contemplati nella norma. Insomma, al di là delle “strumentalizzazioni” tirate in ballo da Cucca, si trattava di una norma pasticciata, su cui è stato necessario intervenire.
VITTORIA A METÀ – Ecco perché l’articolo, riscritto da un emendamento dello stesso relatore, dice ora che “le pene stabilite per i delitti previsti dagli articoli 582, 610, 612 e 635”, cioè violenza, minaccia, danneggiamento e lesione personale, “sono aumentate da un terzo alla metà se la condotta ha natura ritorsiva ed è commessa ai danni di un componente di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa del compimento di un atto nell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio”. Esulta, inutile dirlo, Giovanardi: “Non ho ancora capito cosa volesse dire ‘diffamazione ritorsiva’, ma l’importante è che dal testo sia stato eliminato qualsiasi riferimento ad una norma totalmente incomprensibile”. Ma la sua, a ben vedere, è una soddisfazione parziale. “Infatti l’Aula ha bocciato quegli emendamenti che escludono i parlamentari dall’aggravante prevista per chi compie violenze e minacce – dice l’ex ministro –. Continuo a domandarmi il motivo per il quale deputati e senatori, che sono già tutelati dal privilegio dell’insindacabilità delle opinioni espresse, debbano godere di questa ulteriore guarentigia rispetto ai normali cittadini”.
TUTELA INCOMPRENSIBILE – Critiche anche dai 5 Stelle, che in Aula hanno presentato proprio uno degli emendamenti per escludere deputati, senatori, prefetti e magistrati dall’articolo 3. “Pur condividendo l’impianto del ddl ed essendo riusciti a convincere i relatori ad eliminare le aggravanti per la diffamazione, abbiamo deciso di astenerci in sede di votazione finale”, spiega il senatore pentastellato Maurizio Buccarella. “Nel testo, che ci auguriamo possa essere modificato alla Camera, rimane l’incomprensibile estensione delle tutele per i parlamentari – aggiunge –. Non ne vediamo la necessità, anche perché se da una parte è vero che gli amministratori locali sono quotidianamente soggetti ad atti intimidatori, dall’altro non sono mai state segnalate le stesse circostanze ai danni di un parlamentare”.
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