CASTROVILLARI – I cani randagi vagano e abbaiano per le strade di questo pezzo di Calabria con vista sulla Basilicata. Anche loro, evidentemente, sono a caccia di nuova drammaturgia. Quella che non ha mai smesso di setacciare “Primavera dei Teatri”. Tre le anime del festival, organizzativa di Settimio Pisano, artistica di Dario De Luca, teatrale di Saverio La Ruina, punto d’incontro tra un nord che poco si scambia con le parole di questa parte di sud. La Calabria è, per forestieri lontani a queste latitudini, ‘nduja, Bronzi di Riace e un ponte che non si farà. Da anni è anche Scena Verticale, gruppo che ha saputo portare a far conoscere territori e lingue, personaggi e storie di una terra che troppe volte nell’immaginario collettivo fa ancora purtroppo rima con ‘ndrangheta. I marciapiedi sono tutti devastati e divelti e se non sai dove mettere i piedi, se il passo è incerto, il futuro rimane più faticoso da percorrere.
A far da contraltare una nuova pista ciclabile, fuori dal traffico e immersa nel verde, collega, per gli amanti delle passeggiate, running e bike, Castrovillari a Morano. A volte, per riqualificare un luogo, bastano piccoli accorgimenti a spesa minima. Attorno, montagne che non hanno niente da invidiare al Corcovado di Rio, dove le ginestre organizzano uno spontaneo puntinismo in bilico tra Segantini e il macchiaiolo Fattori, in un intorno da pastorale che fa respirare gli occhi, un paesaggio che si apre al vento. Intanto la squadra di calcio cittadina si sta giocando la promozione in serie D e all’Osteria della Torre Infame (il carcere-fortezza dove si svolge un dopo-festival colorato) spicca il “Fuoco di Bacco”, spaghetti piccanti cotti nel vino. La locandina è sempre vintage: quest’anno una ragazza, tra la cantante Adele e l’attrice Licia Lanera, buttata delusa su un divano. Primavera ha una marcia in più.
Provocatori e profondi i Quotidiana.com si sono costruiti in questi anni un credito di sostanza e intelligenza nell’affrontare la scena, con schiettezza e durezza, senza cedimenti o compromessi con il sistema, sempre critici, nessuna svendita delle loro idee. Quest’ultimo Lei è Gesù, sempre nel solco del loro stile di recitazione gelida, scandita e neutrale, ci ha restituito un duo più tenue e lieve rispetto al passato, meno rivoluzionario e punk, meno pronto alla rottura e più rivolto al gesto formale. Scende l’ironia a contatto con un argomento potenzialmente deflagrante che poteva essere condotto con le mani nella lava e che invece si blocca, si impantana nel sarcasmo, in coreografie minimaliste, tra mimo e boy band, dove il cinismo, loro marchio vincente, si perde e s’annacqua senza quella speculazione, loro cifra primaria, quella violenta disperata ribellione, quella lucida nichilista contestazione che ci ha sempre folgorato.
In un anno di Olimpiadi 32”16 dovrebbe cadere a pennello. Sembra. E’ il tempo che in batteria, a Pechino 2008, la somala Samia fece registrare arrivando di gran lunga ultima sui duecento metri e che poi, nel 2012, morì nel Mediterraneo cercando di arrivare nel Vecchio Continente. Da qui, e la prima parte è calzante, Michele Santeramo inizia con il suo scritto, che dà anche il titolo fuorviante alla pièce, per poi spostarsi sullo spinoso tema migranti che si mischia ad un decadimento, morale e fisiologico, dell’Europa. Il drammaturgo pugliese aveva già sciorinato queste tesi nel suo precedente Disgregamento dell’Unione Europea.
Anche la regia di Serena Sinigallia (le scene da teatro amatoriale, le canzoncine a sottolineare, la Picello che non recita ma piange lamentosa, il tentativo del video finale a cercare un filo conduttore che non c’è) pare piegata su questa evidente frattura e scollatura tra la prima parte realistica (Samia-Olimpiadi-Mogadiscio) dalla facile commozione e la seconda, metaforica, quasi un “Finale di partita” contemporaneo: in un’isola-continente gli ultimi due esponenti rimasti (gli europei) abitano un luogo pieno di cadaveri africani. L’idea di fondo sulla “colpa dell’Occidente” si staglia grossolana, nostro è l’oltraggio, nostra sarà la giusta punizione. L’Europa implode per causa propria, l’Europa non ha più linfa (l’Africa è la vita) e affonderà nel cannibalismo in una visione di “razzismo al contrario” molto semplice da mettere in campo.
Felice conferma quella di Tindaro Granata che in Geppetto e Geppetto convalida il già buono detto sul suo Invidiatemi. Una scena scarna con tavoli e sedie, cartelli e magliette a chiarire chi è cosa e a sottolineare luoghi, legami. L’omogenitorialità, declinata con grazia attraverso una visione non rosa ma umana e piena d’amore, in un ventaglio di pro e contro, di personaggi fragili, di battaglie sanguigne, in una ricostruzione degli eventi cronachistica, quasi un docufiction, anche con inserti di interviste, una discussione aperta ironica (il bambino si chiama Matteo Salvini) e commovente, ben recitata (Paolo Li Volsi e Angelo Di Genio up) e altrettanto ben diretta, un po’ troppo dilatato ma carico di sostanza, pathos, sviluppo drammaturgico: di teatro insomma.