Deposizione in aula a Palermo dell'ex delfino di Craxi: "Sulle stragi si era aperta una dialettica". E l'allontanamento dal ministero della Giustizia, insieme a quello del collega Dc dall'Interno? "Ci accusavano di aver usato mezzi quasi anticostituzionali con l'introduzione del 41 bis"
Il passaporto chiesto dal Ros dei carabinieri per Vito Ciancimino, le “coperture politiche” cercate dal capitano Giuseppe De Donno e il siluramento di Vincenzo Scotti dal ministero dell’Interno. Sono questi i temi principali affrontati dall’ex guardasigilli Claudio Martelli, chiamato a deporre come teste davanti alla corte d’assise di Palermo che sta processando politici, boss mafiosi e ufficiali dei carabinieri per la trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. “Possiamo sicuramente essere certi che si è aperta una dialettica: dopo il 1992 le stragi non sono affatto finite e vengono spostate in continente a Firenze, Roma e Milano”, ha spiegato l’ex braccio destro di Bettino Craxi, che tra il 1992 e il 1993 sedeva al vertice del ministero di Grazia e Giustizia. Ed è nella veste di guardasigilli che Martelli diventa testimone di una delle stagioni più oscure della recente storia italiana.
“Alla fine di giugno del 1992, Liliana Ferraro (che aveva preso il posto di Giovanni Falcone come direttore degli affari penali del ministero ndr) mi disse che aveva incontrato De Donno, che le aveva a sua volta riferito di avere preso contatti con il figlio di Ciancimino, Massimo, con lo scopo di incontrare il padre per fermare le stragi. Ferraro mi disse anche che De Donno cercava una copertura politica a questi contatti”. Sono i famosi colloqui tra Mori, De Donno e Ciancimino che costituiscono in pratica la prima parte dell’interlocuzione tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Martelli, però, non reagì bene a quella richiesta di “copertura politica” che arrivava dall’Arma. “Io mi adirai – ha detto – trovavo una sorta di volontà di insubordinazione nella condotta dei carabinieri: avevamo appena creato la Dia, che doveva coordinare il lavoro di tutte le forze di polizia e quindi non capivo perché il Ros agisse per conto proprio”. Dei contatti tra il Ros e Ciancimino, la Ferraro avrebbe poi parlato anche con il giudice Paolo Borsellino, dato che – sempre secondo Martelli – “non c’era fiducia nell’allora procuratore Giammanco”. I contatti tra Mori e l’ex sindaco mafioso di Palermo continuarono poi anche dopo la strage di via d’Amelio.
“Nell’ottobre 1992 – ha proseguito Martelli – Liliana Ferraro mi disse di avere incontrato di nuovo De Donno, e che il capitano le aveva chiesto di agevolare alcuni colloqui investigativi tra mafiosi detenuti e il Ros”. Ma non solo. “De Donno chiese anche se ci fossero impedimenti a che la procura generale rilasciasse il passaporto a Vito Ciancimino”. Anche in quel caso l’ex braccio destro di Craxi racconta di essere stato contrario alla richiesta del Ros. “Mi sembrava una cosa folle e quindi chiamai l’allora procuratore generale di Palermo Bruno Siclari esprimendogli la mia assoluta contrarietà alla storia del passaporto”. Passano pochi mesi e, nel febbraio del 1993 Martelli deve dimettersi da guardasigilli dopo aver ricevuto un avviso di garanzia che lo coinvolge nell’inchiesta sul “conto protezione”: a tirarlo in ballo l’imprenditore socialista Silvano Larini e Licio Gelli, il maestro venerabile della Loggia P2 nell’inedita – e unica – veste di collaboratore della magistratura.
“A me e Scotti (Vincenzo, l’ex ministro dell’Interno non confermato al Viminale nel giugno del 1992 e sostituito da Nicola Mancino ndr) ci volevano togliere perché avevamo esagerato con la lotta alla mafia”, ha spiegato in aula l’ex dirigente socialista. “Ci accusavano di aver usato mezzi quasi anticostituzionali con l’introduzione del 41 bis”. E se l’alleggerimento del carcere duro per detenuti mafiosi è considerato dai pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene uno degli oggetti principali della trattativa Stato-mafia, nella prima parte della sua deposizione Martelli ha invece riavvolto indietro il nastro del suo racconto fino al 1991, quando chiamò Giovanni Falcone a dirigere gli affari penali del Ministero della giustizia. “Anni prima, credo nel 1987, durante un incontro mi aveva colpito molto. Negli anni successivi avevo seguito la vicenda della mancata nomina a capo dell’ufficio istruzione, della mancata nomina a Procuratore capo e al Consiglio superiore della magistratura: avevo capito che Falcone era un uomo isolato e in difficoltà. È per questo motivo che lo chiamai a Roma: ho pensato che si poteva e si doveva fare qualcosa di serio contro la mafia e lui mi sembrava indispensabile per perseguire questo obiettivo”.
L’ex guardasigilli ha ricordato anche che subito dopo l’omicidio dell’europarlamentare della Dc Salvo Lima, il 12 marzo del 1992, il magistrato palermitano gli disse: “ Si è rotto un equilibrio. E lo disse come se si fosse accesa una lampadina, questa è stata la sua reazione. In seguito, tornando sull’argomento, vide una connessione con la sentenza definitiva del maxiprocesso (che era arrivata il 30 gennaio del 1992 ndr) e l’omicidio del politico della Dc”.