Antonio Missiroli, direttore del Centro studi di sicurezza dell'Unione Europea (Euiss): "Il pallone è sempre stato centrale nella nostra cultura. E questa manifestazione, più di qualsiasi altra competizione, ha rispecchiato i vari momenti del suo continente: il più vecchio, il più piccolo e il più denso di contenuti"
La prima volta degli Europei fu una sconfitta: un tentativo tardivo e malriuscito, con poche squadre al via, tante defezioni e la partita regina (Spagna-Urss) non giocata per ragioni politiche. Da quell’inizio così diffidente, in ritardo rispetto a tutti gli altri continenti, la storia degli Europei è sempre stata legata a doppio filo a quella dell’Europa, spesso subendola, a volte assecondandola, altre ancora anticipandola: “Questo non deve sorprendere”, spiega a ilfattoquotidiano.it Antonio Missiroli, direttore del Centro studi di sicurezza dell’Unione Europea (Euiss). “Il calcio è sempre stato centrale nella nostra cultura. E l’Europeo, più di qualsiasi altra competizione, ha rispecchiato i vari momenti del suo continente: il più vecchio, il più piccolo e il più denso di contenuti”. Partite annullate, sorteggi riscritti, riconciliazioni. E ancora oggi, con le differenze tra chi è Ue e chi non lo è, il problema di Schengen e delle frontiere, l’incubo del terrorismo. Che fanno di Euro 2016 qualcosa più di un semplice torneo di calcio.
NATI TARDI, NATI MALE – La storia della manifestazione è travagliata fin dalle origini. Una bozza di Europei viene ideata da Henri Delaunay già nel 1927, ma il loro “padre putativo” non riuscirà neppure a vederne la nascita: Delaunay, che sarà anche il primo segretario Uefa, morirà nel ’55. Cinque anni prima dell’edizione inaugurale del 1960, battezzata a suo nome dal figlio Pierre; 44 anni dopo la Copa America del 1916 (che infatti quest’anno celebra il centenario), in ritardo persino rispetto alla Coppa d’Asia (1956) o alla Coppa d’Africa (1957). L’Europa è il continente più vecchio, che dà i natali al gioco del calcio, ma è anche l’ultimo ad avere una sua competizione. “Questo perché è profondamente divisa, e a differenza che altrove il nostro calcio si struttura più intorno ai club che alle nazionali”, è la spiegazione di Missiroli. “La Copa è facilitata da una maggiore omogeneità del Sudamerica: i Paesi parlano quasi tutti la stessa lingua e vengono dalle stesse esperienze coloniali. Persino in Africa un torneo nasce prima perché lì i club quasi non esistono e le nazionali rappresentano l’unico elemento di identità per i tifosi, il che porta ad una forma di aggregazione, pur tra mille difficoltà”. In Europa, invece, la situazione è più complicata: “Il continente è diviso, segnato dalla guerra e da reciproche diffidenze. Alimentare il nazionalismo attraverso il calcio non era esattamente in linea con lo sforzo di integrazione a Ovest e l’ideologia prevalente a Est. Di qui l’enfasi sui club, le cui partite presentano meno risvolti ideologici”. Anche per questo la prima edizione è un disastro: il numero minimo di 16 squadre viene raggiunto in extremis; per un motivo o per l’altro mancano Inghilterra, Germania Ovest, Italia, Olanda, la Svezia vicecampione del mondo nel ’58.
GUERRA E GUERRA FREDDA – Come visto, la Guerra Fredda condiziona dall’esordio e per decenni il torneo: nel ’60 il boicottaggio spagnolo spiana la strada al trionfo Urss, quattro anni dopo il successo della Spagna diventa una passerella per il generale Franco. All’inizio anche la guerra vera ferisce la competizione: nelle qualificazioni del ’64 la partita tra Grecia e Albania (due Stati formalmente in guerra) viene disertata dai greci. Ci vuole tempo. “L’Euro – prosegue Missiroli – diventa più accettabile e riesce ad affermarsi proprio con la distensione e l’approfondirsi del processo di integrazione, che facilita il superamento delle vecchie ostilità e permette una più schietta competizione fra le nazionali”. Anzi, il pallone può diventare strumento di pace: nel 1972 la finale mette di fronte Germania Ovest e Urss per la prima volta dopo il conflitto mondiale. Sul campo stravincono i tedeschi (3-0), ma fuori è soprattutto un atto di reciproco riconoscimento; un anno prima della firma del Trattato di Base tra Germania Ovest e Germania Est, che permetterà a entrambi i Paesi di entrare finalmente nell’Onu senza il veto incrociato dei due blocchi.
Così 20 anni dopo anche la riunificazione tra le due Germanie va in scena sul campo: ignorando la strada intrapresa dalla storia, l’urna sorteggia nello stesso girone di qualificazione Germania Ovest e Est; ma quest’ultima decide di ritirarsi ancor prima della riunificazione. Il match d’esordio tra Germania Est e Belgio del 12 settembre 1990 viene riclassificato come amichevole e rappresenta anche l’ultima apparizione della DDR nel calcio, lasciando posto alla nuova Germania unita. Nella stessa edizione anche l’Urss subisce profonde trasformazioni: la dissoluzione cade nel bel mezzo della campagna di qualificazione, e la partecipazione al torneo in Svezia avviene sotto la bandiera della Comunità degli Stati Indipendenti. Fallimentare, perché il Csi non è più una nazionale di calcio ma solo un insieme di calciatori ormai stranieri fra di loro. Anche se Euro ’92 è ricordato soprattutto per la vittoria a sorpresa della Danimarca, ripescata dopo l’estromissione della Jugoslavia per l’esplosione del conflitto nei Balcani.
L’EUROPEO OGGI: FRONTIERE O INTEGRAZIONE? – Caduto il Muro, finita la Guerra Fredda e scomparsi i grandi conflitti, da allora gli Europei hanno cominciato a fare i conti con altri temi più moderni. “Nell’edizione del ’92 la finale si gioca proprio tre giorni dopo il referendum sul Trattato di Maastricht da parte di uno dei Paesi finalisti, la Danimarca”, racconta Missiroli. Tutte le forze politiche sono a favore, ma prende piede una sorta di rivolta populista ante-litteram, basata sul timore che la Germania riunita avrebbe finito per dominare l’Unione europea. Quella partita si carica di una forte connotazione politica. Vince il no, il Trattato viene rinegoziato. E il ministro degli Esteri danese, Uffe Elleman-Jensen, sostenitore del sì e grande tifoso, dopo la vittoria scherza: “If you can’t join them, beat them”; “Se non puoi unirti a loro, battili”, parafrasando il famoso proverbio che predica il contrario.
Da allora gli Europei sono diventati la competizione dell’Europa (più o meno) unita. Con tutti i suoi pregi e i suoi difetti. La distanza profonda tra chi appartiene all’Ue e chi no. Oppure Schengen, trattato-pilastro che oggi vacilla e che viene messo in discussione con la scusa del pallone e della sicurezza: la Francia ha prorogato fino a luglio la sospensione iniziata lo scorso novembre; come aveva fatto del resto anche l’Austria nel 2008. “Per il suo simbolismo, il pallone è finito al centro anche dell’incubo terrorismo”. La grande novità del 2016, però, è soprattutto il nuovo format a 24 squadre: una trovata di Michel Platini per aumentare il business della Uefa, ma non per questo priva di valore simbolico. Secondo il direttore dell’Euiss, “l’allargamento dei partecipanti riflette l’Europa allargata dell’Unione. Entrambi hanno pro e contro: più pubblico, più partecipazione. Ma anche un torneo più diluito, come l’integrazione sempre più difficoltosa della nuova Europa”. Le stagioni cambiano insieme ai problemi, il fascino degli Europei si mantiene immutato. Anzi, aumenta col passare del tempo. “In un mondo sempre più globalizzato, dove il potere si sta spostando altrove, le nazionali sono forse l’ultimo baluardo di sovranità nazionale nel pallone”, conclude Missiroli. “E l’Europeo resta l’Europeo, con il suo prestigio, la sua tradizione, la sua storia. È questo il significato di Euro 2016 e anche delle edizioni che verranno”. Nel bene e nel male.