Da una parte i colpi subiti dal Pd alle elezioni comunali. Dall’altra la campagna del referendum istituzionale. La frase di Matteo Renzi sul “lanciafiamme” da usare nel partito hanno l’effetto di incendiare di nuovo lo scontro tra lui e la minoranza del Pd. E in mezzo ora ci finisce perfino la festa dell’Unità, una delle poche cose rimaste fuori dalle beghe democratiche finora. In particolare l’oggetto del contendere sono i banchetti per il Sì da mettere alle feste, che Pierluigi Bersani non vorrebbe e il segretario sì. “E’ un atteggiamento che non capisco e mi colpisce molto” ha detto il presidente del Consiglio. “Le feste dell’Unità sono le feste del Pd. Non le feste di una corrente minoritaria del Pd. Se ci togliamo la politica, cosa rimane?”. Dall’altra parte la controreplica di Bersani: “È scorretto, per comodità propria, fare la caricatura delle posizioni altrui. Il problema non è certo quello di un banchetto o di un comizio sulla festa. Ovviamente il Pd ha il diritto-dovere di presentare la sua posizione e di sostenerla. Qui si parla di ben altro”. Secondo l’ex segretario, infatti, “si pretende di intitolare le feste del Pd e dell’Unità all’Italia del Sì, all’Italia che dice Sì. Si confondono le feste con una campagna di affissione. Si pensa a una specie di festa del Sì. Le feste sono state inventate per aprirci a chi può anche non pensarla come noi e per farlo partecipare a un confronto di idee. Sono state inventate per ampliare e unire il campo democratico. Usiamole dunque perché il Sì parli al No e non per allestire barriere all’ingresso. Non inventiamoci per favore le feste della Divisione“. Così sembra che i ruoli si siano invertiti, visto che fino a pochi anni fa – per esempio sulle primarie – era Renzi che invitava a aprire il partito e la vecchia maggioranza – guidata da Bersani – a chiedere regole rigide per non “inquinare” il voto.
Renzi, in un’intervista al Corriere della Sera, dice che nel Pd “ogni giorno ho cercato di mediare, di discutere, di tenere buoni tutti. Dobbiamo cambiare di più, non di meno. Il problema non riguarda solo la minoranza. Ma il modo con il quale vogliamo usare questi diciotto mesi che ci separano dal congresso. Vorrei che ci occupassimo del futuro del Paese, non del futuro dei parlamentari”. E le amministrative non sono un appuntamento banale, anche se non c’entrano niente con i destini del governo: “E’ ovvio – sottolinea Renzi – che il Pd anche in caso di vittoria in queste elezioni deve affrontare un problema interno. Non si può continuare con un gruppo che tira e altri che lavorano per dividere”. E anche quello di domenica scorsa, “se proprio vogliamo trasformarlo in un voto di protesta – osserva – diciamo che chi non ci vota più per colpa mia mi accusa di aver mediato e discusso fino allo sfinimento con tutti nel Pd”.
I fischi all’iniziativa della Confcommercio non lo spaventano. “Io – spiega – ho preso i fischi dal primo giorno e continuerò a prenderli, mettendo la faccia ovunque. Nella campagna delle Europee 2014, quelle del mitico 41%, ho fatto comizi interi da Palermo a Napoli fino a piazza della Signoria nella mia Firenze dove c’erano centinaia di fischietti, striscioni e contestazioni. E governavamo da due mesi appena, altro che luna di miele. Il 2015 è stato un lungo elenco di fischi dal Jobs act, con la Fiom in tutti i miei eventi a contestare, fino alle proteste dei professori. Non è una novità. Sono invece molto contento del fatto che chi ieri contestava da Confcommercio alla fine è sceso a discutere e con un paio di loro è scattato persino l’abbraccio”.