Non ho nessun tipo di studio di medicina alle spalle. Ma ricordo perfettamente l’impressione che provai, da bambino, quando mi spiegarono che ci sono parti del nostro corpo che si rigenerano, almeno parzialmente, come succede alle lucertole con la loro coda. Ricordo che qualcuno, non chiedetemi di ricordarmi anche chi, mi spiegò che il fegato, per dire, è un organo interno che può rigenerarsi, quindi a volte, se si soffre di una delle tante malattie epatiche, può essere sufficiente che ci venga donato una parte di fegato da parte di una persona sana, persona il cui fegato e organismo sia compatibile col nostro, per salvarci. Lo stesso, ricordo, succede per certi muscoli, che sono in grado di rigenerarsi, per cui può capitare che ci sia qualcuno che si trovi momentaneamente impossibilitato fare qualcosa che poi, grazie alla natura, ritorna abile.
Questo non succede col cuore. Se ti si dovesse spezzare il cuore, se un piccolo pezzo del tuo cuore dovesse staccarsi dal resto, ecco, sarebbe una menomazione permanente, definitiva.
In quell’occasione, di fronte a questa storia d’amore assoluto, avevo capito che era possibile vivere anche senza avere quasi per niente cuore, perché se è vero che il cuore non si rigenera è anche vero che noi, che al cuore siamo particolarmente legati, sin dal tempo dei tempi, nei secoli abbiamo sviluppato metodi per neutralizzare la sua centralità, spostando tutta l’attenzione dal cuore al cervello, autoconvincendoci che è lì che si trova il fulcro della vita, che nella testa che sta il segreto delle felicità. Del resto, En e Xanax, partiva proprio da lì, e ci raccontava la canzone di due ragazzi che avevano trovato nello stare insieme la soluzione proprio a tutte quelle paure che la mente senza l’ausilio del cuore non può gestire. “Se non ti spaventerai con le mie paure, un giorno che mi dirai le tue troveremo il modo di rimuoverle,” canta Bersani in quella perla rara di canzone, e poi prosegue “In due si può lottare come dei giganti contro ogni dolore e su di me puoi contare per una rivoluzione,” chiosando poi con “Tu hai l’anima che io vorrei avere”. Ecco, anche solo a scrivere questi versi sento un altro piccolo pezzetto di cuore che se ne va, per sempre, in briciole.
Proprio in questi giorni è uscito il nuovo singolo di Samuele Bersani, attesissimo. Non ha anticipato, come in tanti ci auguravamo, il nuovo album di inediti, ma una raccolta live. La notizia, questa non uscita di un nuovo album di inediti, mi ha lasciato sul momento interdetto, perché è tanto che si aspetta un nuovo lavoro del cantautore romagnolo, dal 2013 con Nuvola numero nove, ma sentito il nuovo singolo La fortuna che abbiamo, singolo che da il titolo al tutto, abbiamo capito che nelle vita bisogna anche sapersi accontentare. Perché la canzone, il testo in modo particolare, è un’altra perla rarissima, una perla che, ancora una volta, ci ha portato via un pezzetto di cuore. Già solo l’incipit è da standing ovation, un’altra delle sue trovate geniali “Volevo essere come quei popocorn che non scoppiano quando stanno sul fuoco/ Ma io avevo sottovalutato la pericolosità di un petardo inesploso”. Il resto del testo non è da meno tra un “Se hai sete davvero/ Non prenderti un bicchiere/ Bevi come le piante che credono nel cielo” e un “E correre in discesa fa paura quando manca l’aderenza/ Puoi prendermi le braccia e immaginare che siano freni d’emergenza”, una canzone sull’inadeguatezza, tema tipico dell’ultimo Bersani, ma anche sul voler reagire a essa, sulla voglia di vivere.
L’album dal vivo che la ospita, ventitré canzoni, di cui ventidue dal vivo più l’inedito, serve più che altro per fare il punto e prendere fiato fino al momento in cui, finalmente, Bersani ci regalerà un nuovo lavoro sulla lunga distanza. Qui ci sono tutte le sue perle, quelle citate prima più le altre, immancabili. E ci sono anche ospiti, da un Marco Mengoni stranamente sul pezzo con Il pescatore di asterischi, anche in compagnia degli Gnu Quartet, presenti a più riprese, al duo Musica Nuda, che compare in Come due somari, da Carmen Consoli che eleva, se ce ne fosse bisogno, Giudizi universali, a Caparezza, come Bersani sempre meno presente alle mondanità e sempre più incisivo sulle nostre anime e le nostre coscienze, in Chicco e Spillo, passando per Pacifico, presente sia in Le mie parole che in Le storie che conosci, e per finire a Luca Carboni, che con Samuele canta la dalliana Canzone, musica del grande Lucio e testo di Bersani. Ecco, Carboni è forse il cantautore che più ci ricorda Bersani, per quella capacità di raccontare storie tra malinconia e ironia, e per quella innata capacità di strapparci via la pelle a ogni ascolto, senza poi però darci indicazioni su come curarci. Luca Carboni e Dalla, di cui è indiscusso erede insieme a Cesare Cremonini.
Ricordo che tempo fa, ospite da Fazio, un Bersani quantomai spiazzante raccontò di una volta che, preso dalla disperazione, provò a suo modo a farla finita buttandosi da un burrone, senza però riuscirci. Lo raccontò con tono surreale, neanche stesse facendo un racconto neutro, di nessuna importanza. Bersani è risalito da quel burrone, i graffi sulle mani e le ginocchia. Così capita a noi, per quello che la vita quotidianamente ci pone di fronte. Cadiamo, più o meno volontariamente, in burroni dai quali, a volte, riusciamo a risalire. La sua musica ci strappa pezzi di cuore, ma ci fa sentire tutte le volte che un cuore ancora ce l’abbiano, seppur rattoppato e malconcio. Anche per questo a Samuele Bersani non si può che voler molto bene, perché in due si può davvero lottare come dei giganti contro ogni dolore.