Clapton is God. Clapton è Dio. Questa la frase che nella metà degli anni Sessanta, quando Eric suonava la chitarra con i Bluesbreakers di John Mayall, comparve su una parete delle metropolitana di Islington, nella periferia di Londra. Da quel momento cominciò ad apparire un po’ ovunque, a Londra come altrove. Clapton è Dio. Se si ama la chitarra, e se si ama la chitarra rock con venature blues non si può che condividere l’opinione di un anonimo writer.
Perché il suo modo di approcciare le sei corde dell’elettrica, talmente flemmatico da avergli procurato il nome d’arte di Slowhand, Manolenta, è così caratteristico da essere diventato un vero e proprio marchio di fabbrica, come pochi altri, che so? David Gilmour, Jimi Hendrix, Jimi Page, più recentemente Slash. Insomma, Clapton è davvero Dio. O lo è stato. Solo che adesso, questo ci dice lui stesso, una malattia degenerativa nervosa, una neuropatia periferica, gli impedisce di suonare come lui solo sa. Ed è così da tempo.
“Ho provato molto dolore negli ultimi anni” ha dichiarato a Classic Rock nel corso di un’intervista, “Tutto è cominciato con un dolore nella parte inferiore della schiena, dolore che è degenerato in quella che si chiama neuropatia periferica, una cosa che ti porta a sentire una sorta di scossa elettrica lungo le gambe”. Quindi il suo modo di suonare ha cominciato a risentire della malattia, il suo incedere sulla tastiera si è fatto più lento, quindi più doloroso. Dio ha abbandonato Dio. La leggenda si è affacciata sul baratro e ha visto la fine. In realtà questa potrebbe essere la vicenda raccontata dal punto di vista di uno dei milioni di fan di Eric Clapton, una impressionante carriera solista alle spalle, ma anche partecipazioni fondamentali in band come i John Mayall’s Bluesbreakers, i Cream e The Yardbirds.
Clapton la vede diversamente. Nel corso della medesima intervista, infatti, racconta come lui stia vivendo questo momento di dolore e malattia con un innato senso di gratitudine. Non gratitudine per la malattia, ovviamente, ma per il fatto di essere ancora vivo. “Sono sopravvissuto all’alcolismo e alla dipendenza da droghe – ha detto – considero una gran cosa essere ancora vivo”. Parole sante. Che ci presentano un artista, un uomo che nella vita ne ha in effetti passate di tutti i colori, sul fronte artistico e sul fronte personale, con vicende amorose che hanno ispirato canzoni sue e altrui: su tutte, quelle con la moglie di George Harrison, Pattie Boyd, divenuta ispirazione per Layla, superhit del nostro inizialmente pubblicata a nome di Derek and The Dominos e la tragica scomparsa del figlio Conor, avuto dalla starlette italiana Lori Del Santo, cui ha dedicato Tears in Heaven. Sapere che non potremo più assaporare le sue note, se non raramente o nelle vecchie incisioni, dispiace, come capita con i lutti, ma sapere che Eric Clapton, il Dio scritto sulle pareti della metropolitana di Londra, è ancora vivo e felice di esserlo rende un po’ meno amara la notizia. Quantomeno potremo ancora sentire la sua voce calda.