Se ne è andato a 79 anni dopo una lunga malattia. Per quasi 30 anni insieme al fratello Antonio ha gestito la società biancorossa come un cantiere edile, la principale attività di famiglia. Personaggio simbolo di un calcio d'altri tempi, ha sempre avuto un rapporto controverso con la città e la sua tifoseria ma non ha mai voluto vendere la squadra
Lui “era di serie A”. O almeno avrebbe voluto esserlo. È morto a 79 anni Vincenzo Matarrese, fratello di Antonio (già numero uno della Figc), storico ex presidente del Bari, squadra che ha guidato per decenni tra grandi giocatori e brocchi clamorosi, speranze, emozioni e delusioni. Se n’è andato dopo una lunga malattia che nei mesi scorsi lo aveva costretto al ricovero in ospedale, proprio mentre l’Italia del “suo” Antonio Conte batteva il Belgio a Euro 2016. Il Kennedy di Andria, uno degli ultimi presidenti di un calcio che non c’è più.
La sua immagine è indissolubilmente legata alla celebre rissa con Luciano Gaucci nel post partita di un Perugia-Bari del 1999, conclusa con la frase “Gaucci, noi siamo di serie A”. Ma Vincenzo Matarrese è stato anche molto altro: il calcio a Bari, una delle piazze più importanti del Meridione, dal 1983 al 2011 (ufficialmente da presidente, in realtà anche più a lungo). Quasi 30 anni in cui insieme al fratello Antonio ha gestito la società biancorossa come un cantiere edile, la principale attività di famiglia. I Kennedy di Andria, li avevano ribattezzati in Puglia, un po’ per riconoscere una certa egemonia nella provincia barese, un po’ per prendere in giro le loro manie di grandezza sempre frustrate da una mentalità troppo provinciale.
Con Antonio concentrato sui massimi interessi del pallone italiano (è stato a capo sia della Lega che della Federazione), a Vincenzo dall’inizio degli anni Ottanta è spettato il compito di guidare il Bari. E lui l’ha fatto con risultati altalenanti, grande passione, veracità indiscutibile. Più che un semplice proprietario, è stato uno degli ultimi presidenti vecchio stampo del nostro calcio. Padre padrone affettuoso e un po’ taccagno, che non ha mai voluto fare il passo più lungo della gamba, ma per la sua creatura era pronto a mettersi a spalare la neve dal San Nicola per far allenare i ragazzi. Quello delle conferenze stampa in dialetto e dei giuramenti d’impegno fatti fare ai giocatori, delle promesse mancate e delle mille contestazioni.
Il rapporto con la città e la sua tifoseria è sempre stato controverso. Lui, che il Bari l’aveva preso in serie C nel 1983 e in due anni lo aveva portato nel massimo campionato e ad una storica semifinale di Coppa Italia, non è mai riuscito a fare il salto di qualità definitivo. Ci ha provato veramente una volta sola: nel 1991, quando dopo i Mondiali di Italia ’90 che gli avevano regalato il nuovo stadio, portò in Puglia campioni del calibro di Platt, Jarni e Boban. Quell’anno il Bari però retrocesse, e da allora lui ha sempre preferito non rischiare. Come quando rinunciò alla possibilità di giocare l’Intertoto per andare in Europa nel ’99. O decise di non reinvestire il tesoretto della cessione di Cassano alla Roma nel 2001. In compenso ha scoperto e cresciuto tanti talenti per cui è stato come un padre: Fantantonio è solo il primo di una lunga lista, che comprende Protti, Ventola, Zambrotta, Bonucci. Da Bolchi a Fascetti, a Conte e Ventura anche in tempi recenti, ha comunque regalato anni di grande calcio a Bari, i migliori che la città abbia mai vissuto. Persino un trofeo, la piccola Mitropa Cup, nel ’90. Ma anche tante delusioni e figuracce: la cessione sistematica di tutte le stelle, la retrocessione sul campo in serie C nel 2004 (evitata solo grazie al ripescaggio), l’onta del calcioscommesse. Per questo i tifosi biancorossi avevano finito per contestarlo duramente, rinfacciandogli la sua incapacità di pensare in grande.
A Bari, nel corso di 30 anni di presidenza, gli hanno detto di tutto: “muratore”, “pezzente”, “fratello scemo”. Lui mille volte ha risposto amareggiato di essere pronto a vendere. Non l’ha mai fatto. Perché non c’era nessuno di serio a cui affidare il “suo” Bari, come sosteneva lui (indimenticabile l’arrivo surreale del texano tarocco Tim Burton). O semplicemente perché non voleva separarsi dalla sua creatura. La società è passata di mano solo al momento dell’ineluttabile fallimento. E a distanza di tempo ancora non ha trovato pace, di nuovo sull’orlo della bancarotta, aggrappata alle promesse di un ex arbitro e alle chimere di un malese sedicente. Un dispiacere che lo ha fatto soffrire fino all’ultimo, perché lui il Bari lo amava, nonostante tutto. Per anni invece una città intera lo ha odiato. Oggi che non c’è più magari lo rimpiange, di certo lo ha perdonato.