Elezioni Perù, un italiano mago dei social dietro la vittoria di Kuczynski: “Senza la campagna web avrebbe perso”
Alex Orlowski, parmigiano nonostante il cognome, 48 anni, è stato nello staff del presidente eletto. Ha scelto i giovani che hanno condotto la campagna, ha indicato strategie, contenuti, modalità. Ribaltando l'opinione corrente sui candidati
Una villa coloniale nell’elegante quartiere di San Isidro a Lima. Qui, in due anni e mezzo 12 persone guidate da un italiano hanno ribaltato l’immagine iniziale non troppo vincente di gringo, lobbista e per giunta anziano, che Pedro Pablo Kuczynski doveva necessariamente scrollarsi di dosso per essere credibile agli occhi dei peruviani. Protetto da security e sistemi di rilevamento di impronte digitali il commando (così lo chiamano a Lima) ha contribuito a quei 40mila voti che hanno determinato la vittoria nelle elezioni presidenziali in Perù, lavorando a nemmeno 50 metri dall’ex ambasciata del Giappone, che fu teatro nel 1997 dell’assedio dei guerriglieri dell’Mrta, sui quali l’allora presidente Alberto Fujimori (padre di Keiko, grande sconfitta al ballottaggio di pochi giorni fa) ebbe la meglio, ma solo dopo 126 giorni di occupazione.
Alex Orlowski, parmigiano nonostante il cognome, 48 anni, ha condotto svariate campagne di social marketing politico e di attivismo in giro per il mondo e in Italia, anche se le clausole di segretezza gli impediscono di rivelarci i nomi dei politici o movimenti con quali ha lavorato. Ha incontrato Kuczynski la prima volta nel novembre 2013 grazie al pubblicitario Eduardo Congrains, l’inventore della mascotte della campagna politica Ppkuy per il partito Peruanos por el kambio, di Kuczynski. Da quel momento è diventato l’incaricato per la strategia social media, colui che avrebbe seguito il candidato in tutte le sue fasi. Lui ha scelto i ragazzi che lo hanno affiancato, le strategie, i contenuti, le modalità. Ha protetto i documenti dai furti, da microspie piazzate e dallo spionaggio on line “che qui” ammette “è molto più spregiudicato che da noi”.
Orlowski ha portato la tecnologia potente: un tool di big data politico con analisi predittiva, che raccoglieva ogni mese circa 700mila commenti e post dalla Rete, analizzando il sentiment e l’intenzione di voto in tempo reale. Quanto ha pesato la campagna social sulla vittoria? “La vittoria stessa, senza i social avrebbe perso”. In uno dei Paesi più corrotti del Sudamerica, con le sue regole, quelle scritte e non e quelle che invece non ci sono proprio, con una corruzione politica altissima, in cui gli interessi Usa ma anche europei e italiani non mancano, in cui “non bisogna allarmarsi se un’auto di notte ti segue e cerca di mandarti fuori strada, vogliono solo spaventarti” e in cui la parola più frequente nelle conversazioni sui social era caviarizado, da caviale (cioè un ricco politico corrotto), c’era innanzitutto da accreditare Kuczynski.
Figlio di un medico polacco e di una francese, cugino del regista francese Jean-Luc Godard, appariva tutto tranne che un autentico peruviano vicino alla gente. E qui i social media hanno fatto la loro parte. Per due anni e mezzo Facebook, Instagram, Twitter e Linkedin, quest’ultimo specialmente per il fund raising, non hanno fatto altro che passare immagini e parole di un uomo sì in là con l’età, ma proprio per questo saggio e credibile, molto dinamico, giovanile e in salute, totalmente integrato nella cultura peruviana, dalla cucina al berrettino delle Ande. E a costo di qualche commento negativo, alla fine l’immagine è passata: un economista che può salvare il Paese.
I like si sono trasformati in voti. Specie nelle università, anche quelle lontane dalla Capitale, Kuczynski ha conquistato proprio quelli a lui inizialmente più distanti, i giovani, con una percentuale che negli atenei andava dal 70 per cento delle zone più remote al 95 a Lima. Quegli stessi giovani su cui Orlowski ha puntato fin dall’inizio creando una densa rete di supporter regionali “perché – spiega lui stesso – nel commando c’era chi si occupava di ricerche statistiche e giornalistiche, c’era il comitato politico, ma c’era anche e soprattutto il coordinamento giovani, che ha creato e coinvolto la base, ha fatto corsi di ogni tipo, sulla democrazia, sul voto di scambio, sulla corruzione e sui social media. E la villa coloniale è diventata anche una scuola. E ha contribuito a creare una base forte ed entusiasta, che alla fine con l’appoggio dei candidati non al ballotaggio, tra cui Mendoza e Guzman, è scesa in piazza per il “no a Keiko”.
Una platea che alla fine si è infiammata quando Kuczynski, nel duello tv, ha detto a Keiko “tu no has cambiado, Pelona”, non sei cambiata: una battuta diventata subito virale sui social, così che Keiko è rimasta quella che dal passato, dalla corruzione e dai (nemmeno troppo) presunti legami con il narcotraffico non si era mai sganciata. E hanno pesato davvero allora i 100 chili di cocaina ritrovati in un magazzino di proprietà del fratello della candidata. Poi dalle università si sono raggiunti i meno giovani e quelli più poveri che non hanno il pc a casa ma che si collegano dalle cabinas dove vanno una, due volte a settimana. In un paese, il Perù, in cui il giorno prima delle elezioni non si può bere alcol perché la ley seca lo proibisce e in cui non si parla di astensionismo, perché non votare può costare una multa fino al 2 per cento della dichiarazione dei redditi, ma in cui molti social network e Wikipedia, tranne poche limitazioni, sono gratis, anche a credito esaurito.