Negli ultimi tempi, la rete, principalmente attraverso i social network, ha espresso la propria solidarietà e rabbia in merito agli attentati tragici e particolarmente violenti che hanno occupato la cronaca. L’uso di determinate parole o immagini ha avuto una diffusione virale. Il miglior esempio è forse quel “Je suis” accompagnato dal luogo o da una parola simbolo della tragedia avvenuta. Si è partiti con “Je suis Charlie”, dopo la strage di Charlie Hebdo, in seguito della quale eravamo tutti parigini. E poi belgi, una volta avvenute le stragi di Parigi e Bruxelles. Ora, con la strage di Orlando, si è diffuso il “Je suis gay” con la variante “We are/we love Orlando”, anche se in modo decisamente più contenuto, forse perché ha implicazioni diverse e maggiormente legate alla propria intimità.

Fermo restando la condanna di ogni violenza da parte di una qualsiasi organizzazione o di un singolo individuo sano o squilibrato che sia, fermo restando i buoni propositi delle persone che, giustamente, sentono viva la necessità di esprimere la propria solidarietà, di fronte a questi eventi drammatici, vorrei però che potessimo riflettere maggiormente su alcune implicazioni meno evidenti di quei “Je suis”.

Io non sono una vittima di quelle tragedie. Certo ne rimango scosso e non posso non interrogarmi su responsabilità individuali e collettive che permettono a quel certo tipo di cultura di produrre il peggio di ciò che succede davanti ai nostri occhi, ma non ho vissuto sulla mia pelle quei drammi, non mi sento a mio agio nel pensare che una semplice frase, immagine, per quanto sentita, possa realmente avvicinarmi alla sofferenza di quelle persone. Non è il mio dolore e il mio modo di rispettarlo non deve azzerare le distanze, ma sottolinearle.

Le varie forme di “Je suis” & affini non fanno altro che rendere omaggio all’omologazione, anziché alla differenza. Ci vorrebbero tutti uguali, ma non lo siamo. Ed è bellissimo così. La diversità è naturale, vitale e sana, ma in essa non vi è nulla di eroico. Sono eterosessuale, sono omosessuale, sono Charlie, sono tutte le vittime o le minoranze di questo mondo, ma quando trovo il tempo di essere me stesso e fare davvero qualcosa? Essere quel che siamo non significa non provare dolore, non appoggiare un determinato tipo di causa con tutta la propria convinzione. Ho più cura del prossimo mettendo dei confini e non certo annullandoli. Se faccio finta che questi confini non ci siano, annullo me stesso e, se non do valore al mio essere diverso, come posso dare valore alla diversità dell’altro?

Quando parliamo di pari diritti e opportunità, non stiamo dicendo che siamo tutti uguali, ma solo che l’essere diversi non deve implicare vantaggi o svantaggi di sorta.

Se l’altro è diverso da me è perché io sono diverso da lui. Che un maggior numero di persone sia di un determinato orientamento sessuale, rispetto ad un altro, va vista come la norma, non come un qualcosa di cui andare fieri: non c’è niente di speciale nell’essere “normale”, per quel che può significare questa tanto abusata parola. Quel che fa la maggior parte della gente non necessariamente è giusto o sbagliato, è solo quel che fa la maggior parte della gente.

In gruppo, le dinamiche di pensiero e di comportamento cambiano, rispetto a quelle individuali. In rete, a causa del virtuale e di un’emulazione capillare che non vuole dissidenti, pena la beffa, l’insulto e l’esclusione, tutto questo si amplifica a dismisura. Gli altri pensano e agiscono per noi, ma gli altri siamo anche noi: inciampiamo continuamente in questo paradosso. Il web si nutre di ondate emotive, quindi farà sempre di tutto perché queste trovino terreno fertile. E’ solo il pensiero individuale che può imbrigliare il pensiero collettivo e deciderne il raggio d’azione in autonomia.

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