Le carceri italiane sono già affollate ma al loro interno ci sono 19mila i detenuti che devono scontare un residuo inferiore ai tre anni e che avrebbero diritto alla misure alternative, se solo venissero accordate. In una lettera al fattoquotidiano.it, un detenuto nel carcere di Lecce racconta cosa si prova a tornare in cella a 14 anni dai reati commessi, nel pieno del reinserimento sociale. Il cortocircuito è tema ignorato, spesso con la scusa dei fondi. “Bisogna lavorarci – dice il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma – e preferire i progetti controllati alla detenzione, anche per i costi”
“Ritornare in carcere quando si è già rieducati è insensato. È giusto che io debba scontare questa pena, ma esistono altre misure per chi ha già deciso di ravvedersi da tempo. Ecco perché io, educatamente, mi ribello a questo sistema”. È il detenuto Andrea Bufano a scrivere, “da una delle celle della casa circondariale di Borgo San Nicola, a Lecce”. Una lunga lettera al fattoquotidiano.it per raccontare cosa si prova quando fuori, da anni, ci si è rifatti una vita nella legalità piena e si è costretti all’improvviso a tornare dentro, rischiando di scivolare in una vecchia storia. È il paradosso dei residui di pena. Per molto tempo restano sospesi nel limbo del sistema decisionale; poi, diventano un definitivo, la richiesta di pagare il conto, di tornare dietro le sbarre. Con il rischio di un effetto boomerang tipico dei casi in cui si sradica una persona dal percorso lecito che ha costruito. “Non si tratta di rinunciare alla sanzione – riflette Mauro Palma, garante nazionale per i detenuti – ma di trovare altre forme più utili alla sicurezza complessiva, perché il carcere spesso non garantisce il maggiore inserimento sociale, bensì aumenta il rischio recidiva”.
Nessun censimento e tempi biblici per le alternative
“Poi, un giorno, la giustizia si è ricordata che ho un debito da saldare per un reato commesso nel 2001 e così, nel pieno della mia redenzione, composta da decespugliatore e penna, sono stato nuovamente arrestato: un vero trauma! Non mi è stato concesso nulla, nessun affidamento ai servizi sociali. Dunque, devo vegetare in carcere, dove l’ozio prende il sopravvento. E questo nonostante io abbia già una regolarissima richiesta di lavoro e una condotta esemplare”. Andrea Bufano, 38 anni, è in cella dal dicembre scorso, per una rapina commessa quattordici anni prima. L’udienza per decidere l’eventuale affidamento in prova è stata fissata per settembre.
“Passano mesi prima che venga valutata una richiesta simile – confermano da Antigone, l’associazione che da trent’anni si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale – e questo è un problema che sfugge ai piani alti. L’amministrazione penitenziaria non censisce questi casi, ma a noi capita spesso, durante le visite negli istituti, che gli stessi direttori ci facciano notare la difficoltà di essere chiamati a reinserire gente che fuori era già socialmente integrata, tanto da chiederci un aiuto nel sollecitare il Tribunale di Sorveglianza. Si tratta spesso di persone accusate di reati minori, rimesse in libertà dopo aver scontato la misura cautelare e riportate in cella a distanza di molto tempo, quando arriva l’ordine di esecuzione”.
La giustizia 14 anni dopo, nel pieno del riscatto
“Non è la prima volta che perdo la mia libertà – racconta Bufano – ma è il primo arresto da persona ravveduta. Nel 2006, quando ero ai domiciliari, ho deciso di intraprendere un nuovo percorso per una vita migliore e nel 2008 ho concluso la prima tappa, ossia quella con il Sert. Ne ho iniziata un’altra ancora più dura: quella per il reinserimento sociale. Ho fatto tutto da solo con le mie forze, mi sono inventato di tutto, ma trovare lavoro era una vera utopia. Nonostante ciò, sono andato avanti: avevo deciso di dire basta con la droga, con l’azzardo, con l’illegalità e con tutte le mie dipendenze croniche”.
La sua è stata, per sua stessa ammissione, una vita di eccessi: tra la fine degli anni ’90 e il 2001 mette a segno cinque rapine in banca, nel Riminese. Per sette anni, fino al 2008, alterna carcere, domiciliari e affidamento in prova. Nel 2005, finisce nuovamente dietro le sbarre per possesso di cocaina. Poi, viene scarcerato grazie all’indulto. Da allora, cambia strada. Nel 2013, però, un’invasione di campo durante la partita Lecce-Carpi gli costa l’accusa di minacce e resistenza aggravata a pubblico ufficiale e viene rinchiuso per un mese e mezzo nella Dozza di Bologna. Il suo avvocato Giuseppe Milli riesce a dimostrare la sua innocenza, attraverso un video rimasto per mesi nel cassetto della Digos di Lecce e mai visionato dal pm, ma che avrebbe potuto scagionarlo subito. Dunque, l’assoluzione.
“Ma per quell’arresto – spiega Bufano – ho perso tutto: lavoro e fidanzata. Mi è stato convalidato in base ai miei precedenti penali. Per questo ho deciso di combattere la morte civile e il pregiudizio, non quello della gente, bensì della giustizia verso chi, come me, ha fatto degli errori, ha pagato, ma viene condannato per sempre”.
Ne è nata un’autobiografia, “Neve a giugno”, scritta tra un lavoro saltuario da giardiniere e una costante attività di volontariato nella cura del verde pubblico del comune di residenza, Martano (Le). Quel libro è diventato arma di riscatto personale e strumento di dialogo sociale: “Incredibilmente sono stato contattato dalle scuole, ben undici licei del Salento, da centri culturali, Comuni e altri enti, per raccontare di come cambiare vita sia possibile. Ho messo il mio vissuto a disposizione dei più giovani”. E ha funzionato. Fino al 4 dicembre. La Cassazione, infatti, ha deciso: Bufano deve scontare un residuo di pena di tre anni, un mese e 17 giorni e pagare una multa da 15mila euro.
“Io vorrei solo che qualcuno mi rispondesse: cosa si deve fare più di quello che ho fatto io per dimostrare di essersi ravveduti? Io rispetto la sentenza – è scritto nella lettera – ma chiedo che chi decide mediti a livello umano, guardando non solo ciò che una persona ha commesso in un passato remoto, ma anche ciò che è ora”.
Alternative per pochi, eppure per chi non e’ in cella recidiva allo 0,79%
Non c’è solo Andrea. È stata Antigone a dare voce, nel suo webdoc Insidecarceri, alla storia simile di un uomo ristretto a Montacuto, ad Ancona. “Sono qui per un fatto risalente a 21 anni fa – ha raccontato –. Sono stato arrestato nel 1995, per decorrenza dei termini sono uscito nel ’96 e da allora non ho più commesso reati. Nel 2012, mi è arrivato il definitivo di sei anni e dieci mesi. Nel frattempo cosa ho fatto? Ho aperto una pasticceria, ho ceduto una pizzeria, poi una rosticceria, ho formato una famiglia, ho una figlia di cinque anni. Ma il magistrato di sorveglianza non si è chiesto cosa io avessi fatto di buono e non ha pensato che forse era meglio che restassi a lavorare, perché ormai la riabilitazione me la sono fatta da solo. Invece, mi hanno mandato in carcere per riabilitarmi”.
“Galere d’Italia”, il XII Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, dice che sono in tutto 19mila i detenuti che devono scontare un residuo inferiore ai tre anni e che avrebbero diritto alla misure alternative, se solo venissero accordate. Per chi ha scampoli di pena superiori al triennio, invece, non c’è possibilità di evitare la cella, almeno fino a quando il definitivo non si riduce sotto quella soglia. Eppure, i numeri sulla recidiva del reato durante le misure alternative sono incoraggianti: solo lo 0,79 per cento torna a delinquere. Sono 29mila, al momento, le persone che stanno affrontando la pena detentiva non in carcere: un terzo è ai domiciliari; 12mila sono in affidamento in prova; 6mila ai lavori di pubblica utilità; 724 in semilibertà.
Il garante: “meglio un progetto controllato della pena, ma i servizi sociali sono senza risorse”
“Le misure alternative non sono attenuazioni della misura carceraria, ma tappe di un percorso. C’è anche un nodo costi: se investo in queste, i frutti li vedrò più avanti, perché evito più facilmente la recidiva e avrò in futuro meno carcerati da mantenere”. Parola di Palma, il garante dei diritti dei detenuti. Spiega: “L’elemento sanzionatorio va affermato, ma non dev’essere per forza la pena detentiva. È meglio avere un percorso controllato con restrizioni, per evitare il totale distacco da ciò che si è faticosamente costruito fuori”.
Quello dei residui di pena è un cortocircuito proprio dei Paesi con maggiori garanzie: “in base alla mia esperienza europea – continua Palma – un sistema che non ti considera in esecuzione penale fino a sentenza definitiva ti espone maggiormente al rischio che la giustizia giunga in ritardo. Questo è il punto: se c’è un provvedimento che arriva a compimento abbastanza presto, l’interruzione con ciò che si era fuori può essere utile, altrimenti bisogna potenziare la comprensione di ciò che è stato fatto nel frattempo”.
È un tema al vaglio del Ministero della Giustizia? “Nello specifico – risponde il garante – non è un argomento su cui si sta lavorando, mentre si sta valutando nei termini generali dell’accelerazione dei tempi della giustizia. Bisognerà intervenire, però, sulla progettualità sanzionatoria, dando effettiva possibilità di seguire i detenuti. Diversamente, le misure alternative diventano solo un modo per scaricare il problema su un altro sistema, quello dei servizi sociali, ricco di professionalità ma poverissimo di risorse”.