Qualcuno a volte mi invia la raccolta di poesie che ha appena pubblicato e mi chiede (ne sono lusingata) di parlarne in questo blog. Rispondo che, più che un blog, questo è un diario di lettura. Quello che mi spinge a scrivere è un’emozione o una rivelazione. Se non arrivano, non scrivo. Penso che ci siano bravi scrittori e bei libri. Bravi poeti e belle poesie. Credo che non sempre bravi scrittori scrivano bei libri, né che bei libri siano scritti da bravi scrittori. Per esempio, non so se Guimaraes Rosa sia stato un bravo scrittore, certo è che Grande Sertao sia un libro spettacolare, vivo, cangiante, incandescente, emozionante. Scritto, si racconta, mentre l’autore era preda dell’alcol.
Il mio universo è composto di esseri umani, oggetti, natura, libri. Quello che chiedo è allora di vibrare davanti alla parola semplice e nuova. Se nell’arcano, nel misterioso, il poeta vuole a tutti i costi portarmi, non dimentichi che c’è stato un Paul Celan, un René Char che nel mistero della vita è affondato e ne è riemerso con sacchi di parole precise. Fatta questa premessa, inizio il viaggio nel libro Giona nella Pancia del Pesce Cane, raccolta di poesie di Nicola Dal Falco, edita da La vita felice e vincitore della sezione poesia di viaggio, Premio Montale Fuori Casa 2016.
Inizio la lettura: direi che è una poesia contemplativa, che si ciba di filosofia e di letture importanti. Per capire alcuni versi devo rileggerli più volte, il soggetto citato all’inizio non torna più nel testo e l’assenza del verbo mi lascia interdetta. I riferimenti dotti mi sfuggono. Non ammetto di leggere note per capire una poesia. La lingua è impeccabile, nessuna sciatteria, nessun luogo comune, ma a volte è troppo oscura, troppo elegante. E’ però molto bella, musicale e continua. Improvvisamente, una chiarezza quasi dolorosa. Arrivano poesie che devo sottolineare con la matita, l’attenzione diventa tagliente, c’è qualcosa che mi riguarda; non esiste più la vita intorno, il passato e il futuro si condensano in quell’istante.
Un paesaggio che si intravvede, un animale colto nel suo gesto più intimo e misterioso. Immagini che vengono calamitate verso il nucleo buio della mia vita e portano luce. E’ per questi momenti che amo la poesia e finché ci saranno i poeti mi sentirò al sicuro in questo mondo balordo.
Annodare silenzi
Mi capita, sempre più spesso,
di annodare silenzi a silenzi,
di puntare come le anatre a un’isola di sassi,
affiorata l’altro ieri verso la foce del torrente
e in quel biancore già di sonno,
piegare col capo i pensieri come fanno le anatre
ruotando la testa, quando tuffano il becco nella schiena
e il corpo sigillato in un ovale s’arruffa al vento e galleggia.
Quel modo dell’anatra contiene intera
l’isola sul greto
bianca metafora del silenzio
in mezzo alla corrente
Questa anatra, un ovale che si arruffa al vento…
Come lei vorrei tuffare il becco sotto l’ala e nascondermi, offrendo alle intemperie
il corpo impermeabile al dolore, al freddo.
E ancora:
Si entra nella poesia
come nell’ombra del bosco
senza patemi, seguendo
il sentiero, ma è solo dopo
che inizia una specie di danza o concerto,
un movimento di rami dal basso,
l’aria, per così dire, si riempie del proprio tatto,
un’unica, indescrivibile impronta
che vaglia e contorna,
si stende vicina per il breve fiato del canto;
non può dirsi lussuria,
anche se di desiderio si tratta,
di pressione studiata
e per il tempo che dura,
dà quella sensazione reale
a un passo dalla schietta paura
Qui non è solo il poeta che parla del comporre poesia; è la poesia stessa che ci suggerisce come inoltrarci in lei, senza patemi, seguendo il sentiero. Alla fine del viaggio mi ritrovo con un gioiello. Non ricordo dove ho letto che l’immagine del gioiello indica una cosa piccola ma piena di valore, trasportabile, luminosa, che accresce la bellezza; un gioiello si può facilmente nascondere, indossare. Proprio come un libro di poesie.